Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Il “manuale” di Mitra

Riapre al pubblico (con ingresso contingentato due sabati al mese) il Mitreo Barberini a Roma, luogo di culto, tra i molti sparsi all’epoca nella caput mundi, per i legionari che trovavano protezione in quella divinità “apparentata” al Cristianesimo

Parecchi romani lo ricorderanno. I cronisti culturali, poi, ne hanno seguito passo passo le vicende, durate quasi sessant’anni. Parliamo del contenzioso che ha opposto a lungo il ministero dei Beni Culturali e quello della Difesa. Motivo della disputa, Palazzo Barberini, “occupato” per buona parte dal Circolo Ufficiali, con un affitto prorogato di decennio in decennio, in danno alle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Antica costrette a restare nei magazzini per mancanza di spazi espositivi. Della contorta storia, risoltasi soltanto nel 2015 con lo spostamento definitivo dei ricevimenti dei militari nella Palazzina Savorgnan di Brazzà, all’estremo dei Giardini Barberini, ora ritroviamo un rovesciamento, a testimonianza di come le istituzioni possono dialogare e collaborare anche quando hanno interessi divergenti. Perché proprio nel seminterrato della villa esiste un ambiente del secondo secolo dopo Cristo di grande suggestione. Che un accordo virtuoso tra i due dicasteri permette di aprire ai visitatori, entrando appunto da via Venti Settembre 2, lo stesso cancello che conduce attraverso un viale attiguo al ministero della Difesa, in uno scorcio inedito di edifici di fine Ottocento/primi Novecento. Ecco le serre di Palazzo Barberini, ecco la deliziosa palazzina Savorgnan di Brazzà, disegnata in parte da Marcello Piacentini, col cortile circolare adornato da una fontana e la grande statua di divinità. 

Ed ecco all’interno, scendendo pochi gradini, il cosiddetto Mitreo Barberini. Ne è ora “sacerdotessa” l’archeologa della Soprintendenza Speciale di Roma Simona Torretta, che accoglie i visitatori due sabati al mese, con ingressi contingentati e da prenotare nell’apposito sito. Perché non più di quindici persone per volta possono entrare nell’ambiente rettangolare di dodici metri per sei. Lo impongono le regole anti-covid ma soprattutto la salvaguardia del dipinto che occupa tutta la parete di fondo, incorniciato da un’arcata. Troppa umidità danneggerebbe l’affresco, raro da reperire in questi luoghi di culto («Ce ne sono, così esaustivi, solo nei mitrei di Marino e di Santa Maria Capua Vetere», avverte Torretta). Che divennero numerosi nella Roma dell’Impero, poiché la divinità era venerata dai legionari, venuti a conoscenza del suo carisma nel corso delle campagne nell’Oriente persiano. Era un dio, Mitra, che assicurata la salvezza dell’anima, una consolazione per chi, in armi, rischiava ogni giorno di morire. Sicché intorno al secondo secolo dopo Cristo dovevano essere duemila, a Roma, i mitrei. Un culto diffuso tra i militari e il popolo, abbracciato da imperatori quali Commodo e Domiziano. E la zona del Mitreo Barberini, ai piedi del colle Quirinale, era costituita da abitati intensivi e da numerosi luoghi di culto, come appunto il Tempio di Quirino. C’erano qui la domus di Pomponio Attico, il grande sodale di Cicerone. E Marziale, il poeta degli Epigrammi, abitava un appartamentino in una delle numerose insulae. In questa Sesta Regio, Diocleziano costruì le sue Terme e lo fece anche Costantino, nel punto ora sovrastato da Villa Aldobrandini. Insomma, era uno snodo composito della caput mundi imperiale, una caratteristica che ha curiosamente conservato oggi, con il via vai turistico-ministeriale di via Nazionale, della Stazione Termini, delle chiese barocche di Bernini e di Borromini, nonché il blasone istituzionale dei palazzi del Quirinale e della Consulta.

Un mix socio-culturale che corrisponde a quello religioso. Il mitraismo si insinua quando già s’espande l’altra religione venuta dall’Oriente, il Cristianesimo. Con il quale ha tanti punti di contatto: Mitra nasce in una caverna il 25 dicembre, i suoi adepti quando si riuniscono si cibano di pane e vino e, appunto, credono nella vita dell’al di là. Però soltanto gli uomini possono accedere ai sette gradi dell’iniziazione. Ed è probabilmente per questo che la Croce di Cristo attira più fedeli, donne e uomini senza distinzione. 

Di come si articolasse la religione del dio dal berretto frigio il Mitreo Barberini fornisce una sorta di “manuale” per immagini. Già l’ambiente, scuro, allude alla grotta nella quale nacque, sgorgando da una roccia con un pugnale in mano, a prefigurarne la missione. Le due banchine laterali (praesepia) avevano la stessa funzione dei triclini: gli adepti vi si sdraiavano su un fianco, per consumare il sacro pasto. I riti di iniziazione prevedevo un bagno nell’acqua gelata e l’aspersione con sangue di toro, lo stesso animale che Mitra uccide, icastica scena al centro dell’affresco: il sangue che uscirà dal corpo dell’animale sarà capace di far germogliare tutte le piante utili all’uomo, in primis il grano, che infatti spunta dalla coda della belva morente, peraltro insidiata da un serpente e da uno scorpione, inviati dal dio del male per contrastare il trionfo della vita e della razionalità sulla morte e sull’istinto. Mitra indossa un mantello rosso trapunto da stelle, sette, numero magico, e lo affiancano due tedofori, Cautes e Cautopates, uno con la fiaccola rivolta verso l’alto e l’altro verso il basso, a evocare alba e tramonto del Sole ma anche nascita e morte. Quando trafigge il toro con la spada ha accanto un altro aiutante, un cane, che insieme con un corvo frena le forze malefiche di un serpente e di uno scorpione.

Come nelle predelle dei polittici cristiani, dieci scenette incorniciano il dipinto raffigurando le imprese di Mitra, i suoi numi tutelari Zeus e Saturno, l’iniziazione, la ricerca del toro, l’incontro con il Sole, la quadriga, il banchetto sacro. Labili tracce nell’arcone che incorniciala pittura murale rappresentano un pesce e pietre pomici, a meglio simulare la magica grotta. E se è leggibile la scritta latina “Uperante paga di tasca sua” sopra uno dei banconi per gli adepti, non è mai stato decifrato, su uno dei lati lunghi, il graffito in greco e latino. Ma tant’è, rientra nelle formule oscure dei riti misterici.

Si esce dal Mitreo e la luce inonda la facciata posteriore di Palazzo Barberini, con lo scosceso viale che conduce all’interno del mastodontico edificio costruito sopra la cinquecentesca villa Sforza. I Barberini diedero mandato al Maderno, a Pietro da Cortona e agli altri architetti di farne residenza urbana e rurale insieme. Così si espanse dalla valle – l’odierna piazza Barberini – alla collina (via XX Settembre) il parco, punteggiato da statue e giardini segreti. È questo l’aspetto urbanistico che evidenzia la visuale dalla Palazzina Savorgnan di Brazzà, realizzata negli Anni Trenta del Novecento su una porzione del parco venduta all’esploratore italiano naturalizzato francese e al servizio del governo di Parigi per facilitare l’opera di colonizzazione lungo la riva destra del fiume Congo. Seppe conquistare gli africani con la sua sollecitudine (ricomprava gli schiavi per liberarli), i modi semplici, l’aspetto nobile. Sicché è l’unico dei colonizzatori a mantenere il proprio nome in una città del Continente Nero, Brazzaville, capitale del Congo. Ora il suo ricordo si lega anche al Mitreo Barberini, che fu scoperto nel 1936 – insieme con una cisterna imperiale – mentre si edificava la residenza capitolina, affacciata sul rigoglioso giardino all’italiana a fianco di una lunga serra ottocentesca. Anche questa restituita dal Circolo Ufficiali alla Galleria di Arte Antica, che sta studiando – dopo i due anni di lockdown – come farne un adeguato spazio espositivo.

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