Nicola Fano
Al Teatro Basilica di Roma

Attrici allo specchio

Daniela Giovanetti e Alvia Reale raccontano qualcosa di sé, delle proprie delusioni e dei propri sogni per descrivere quel pezzetto di mondo nel quale ci muoviamo tutti. Sospesi tra cuore e rabbia, tra vita e illusione. Come insegna il teatro, insomma

Non perdetevi lo spettacolo Cuore: sostantivo maschile, in scena fino a domenica al Teatro Basilica di Roma. Intanto perché lo interpretano due attrici formidabili, Daniela Giovanetti e Alvia Reale, poi perché è un’ora filata di emozioni (a volte drammatiche, a volte ironiche, a volte proprio comiche) che ci riportano al senso profondo di questa arte: il teatro. Qui, alla fine, cercherò di spiegare perché.

Ma, intanto, diciamo che lo spettacolo consta in una sorta di catalogo di vite vissute raggruppate per temi. O capitoli, come fosse un diario. La scelta di diventare attrici, il rapporto con i genitori perduti, il sesso, l’attaccamento morboso agli animali domestici… e un post scriptum secco e strepitoso del quale non vi sveliamo la sostanza per non guastarvi la sorpresa, ma da solo vale il prezzo del biglietto: fidatevi. In scena, le due attrici, insomma, raccontano se stesse, con nome e cognome, con illusioni e passioni, delusioni e amarezze personali. Alvia Reale, descrive in modo abbacinante il rapporto con la madre. Poche parole, ma una distesa di vecchi merletti in scena, prima disposti con precisione, poi accartocciati malamente, poi presi a calci e buttati via: le azioni contano più di quel che si ascolta dalla bellissima voce dell’attrice (Alvia Reale stessa cura la regìa dello spettacolo). Chi non ha, sulla balaustra della propria memoria, un merletto di intessuto dalla madre? O dalla nonna? Il groppo emotivo arriva dritto dritto da lì.

Daniela Giovanetti, invece, descrive il suo debutto come ballerina, l’incidente terribile che le cambiò la vita e il ritorno in scena, lentamente, come attrice. Giacché tutta la sua vita è stata un’eterna ripartenza: lo dice anche il suo corpo accartocciato sul palcoscenico nudo e suggestivo del Teatro Basilica. Fino a distendersi, poi, quando le due attrici si fanno l’una, gatto e, l’altra, cane (scena strepitosa) e si fanno dispetti, si urlano e si umiliano vicendevolmente sparandosi addosso verità terribili. Cani e gatti: una faccenda proverbiale che qui però – grazie al gioco teatrale – si incardina perfettamente nel rapporto tra gli umani, più che tra gli animali.

Insomma, lo avrete capito: questo piccolo, delizioso spettacolo ci dice molto sulla sintonia mimetica che da millenni esiste tra la vita e il teatro. La vita delle due attrici diviene naturalmente, inevitabilmente, teatro: con i segni della finzione (autentica finzione, si direbbe con un paradosso) le due raccontano se stesse. Ma non potrebbero farlo altro che così, ossia mettendosi in scena e rivelando qualche emozione segreta per finta. Anche se poi si tratta di cose vere… Perché il teatro è uno schermo sul quale proiettiamo le nostre esistenze: per vederle meglio, per capirle meglio. Ma sempre al riparo della finzione. Le nostre vite si sovrappongono alle vite degli altri e diventano tutt’uno con loro.

Sennonché, usciti dal teatro Basilica, non solo sappiamo qualcosa di Alvia e Daniela, ma sappiamo molto di più di noi stessi. Il teatro serve a questo. Approfittatene!


La fotografia accanto al titolo è di Francesco Calcagnini

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