Giuliano Compagno
"Orizzonti verticali" a San Gimignano

Soghomon e Krapp

Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari hanno presentato un bello spettacolo su Soghomon Tehlirian, l'armeno che nel 1921 uccise il ministro turco per riscattare l'eccidio del suo popolo; Giancarlo Cauteruccio torna su Beckett: due facce dello stesso (attualissimo) Novecento

Giunto alla nona edizione, “Orizzonti verticali” rinsalda felicemente l’incontro tra scena e letteratura. Per un festival di teatro, arti e lettere, ciò non sarebbe una novità, infatti la differenza è che Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari hanno realizzato nel tempo le loro intenzioni, difficili, di coniugare i linguaggi e di offrire a essi una dimora stabile. L’ultima serata, in una San Gimignano dove si faticava a distinguere la brezza delle parole dai soffi del vento, ci ha regalato due spettacoli importanti: l’uno in prima nazionale, L’imputato non è colpevole, mi rimarrà nella memoria; l’altro, L’ultimo nastro di Krapp, l’ho a mente dalla prima volta che lo vidi per cui sarà sempre, per me, una penultima mondiale.

Per via del Covid ho assistito all’opera di Guicciardini e de Bari dalla cosiddetta “postazione Oculus”. Mi hanno fatto indossare una maschera e per magia mi sono trovato a teatro. E sono riandato indietro di un secolo, al mese di marzo del 1921, quando a Berlino viene colpito a morte Talaat Pascià, ministro dell’Interno ai tempi dello strapotere dei “Giovani Turchi”. A sparargli è Soghomon Tehlirian, uno studente armeno di venticinque anni. Il movente risulta subito chiarissimo. Il vizir è il maggior responsabile del terribile genocidio di armeni avvenuto in occasione della loro deportazione forzata a Erzincan. A migliaia erano stati depredati, violentati, uccisi. Qualche decina, tra i morti, era parente di Soghomon: sua madre e i suoi fratelli, anch’essi martiri. Il processo si celebra ai primi di giugno.

Della perizia del ragazzo è incaricato Richard Cassirer; lo psichiatra porta un cognome famoso: Ernst suo cugino, è il filosofo del cosiddetto “animal symbolicum”; suo fratello, Paul Cassirer, collezionista e gallerista notissimo, si ucciderà per amore di Tilla Durieux prima di accedere alla causa divorzile (e dire che allora l’assegno di mantenimento non era stato concepito). L’omicida viene diagnosticato capace di intendere. Quanto al suo volere, lo mostrerà durante gli interrogatori.

Guicciardini si prende il merito di aver letto e studiato con grande applicazione i verbali del processo Tehlirian, tanto da comprendere appieno (il che si evince dalla sua riduzione teatrale) il senso di quel clamoroso episodio di giustizia. E così, ad almeno tre momenti esemplari lo spettatore assiste con una intensa partecipazione.

“L’imputato non è colpevole”

È quando il giudice domanda all’imputato se fosse consapevole di quel che stava compiendo nell’esplodere il colpo: il togliere la vita a un essere umano; e Soghomon risponde di avere avvertito, netta, la coscienza di quel che fosse giusto fare, di avere risposto a quella sua chiamata interiore.

È quando il giudice chiede all’accusato cosa l’avesse indotto a quel gesto; e Soghomon risponde che era stato di notte, in sogno, all’apparire di sua madre che chiedeva conto della sua inazione: era forse diventato indifferente al dolore e alle ingiustizie che aveva subito?

È quando la giuria viene chiamata a emettere la propria sentenza. Soghomon Tehlirian è colpevole o innocente del reato di omicidio volontario? Il Presidente non tentenna. Il suo sguardo si rivolge a destra, poi a sinistra… come se pretendesse l’attenzione del mondo intero. Infine, dritto davanti a sé, Otto Reinicke sillaba la frase definitiva: «No. L’imputato non è colpevole!»

Resiste la sostanza di una giustizia universale rispetto a qualsiasi forma di automatismo giuridico. Che tale contrapporsi di effetti sulle cause della realtà storica abbia continuato a operare senza soluzione, non è credibile. Ciò non toglie che l’eccellente risultato dell’impresa di Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari, nonché le ottime interpretazioni di Annibale Pavone e di Sebastiano Geronimo arrivano a illuminare il felice esito del progetto.

Dopo un’ora serrata in cui si rimane legati a un passato a noi così prossimo e così drammatico, si coglie l’importanza di un verdetto a partire dal quale si gettano le fondamenta e le basi del Diritto dell’Uomo. In nulla e per nulla quella sentenza rappresentò il precedente di una giustizia privata; in tutto e per tutto invece essa fungerà da garanzia postuma contro le brutalità e gli orrori dei poteri della storia recente.  Teniamo accesa la speranza in una Umanità ove l’essere vincitori non corrisponda a un’arroganza senza più regole e senza rispetto nei confronti del più deboli. Da Soghomon Tehlirian in poi, qualcosa cominciò a mutare.

A sera saliamo verso la rocca di San Gimignano. L’aria va rinfrescando, attendiamo che la figura che sta sul palco dinanzi a tutti, seduta a una sorta di scrivania strapiena di scatole, ci guardi, si muova, parli. Divenuta un vero e proprio classico del teatro contemporaneo, l’interpretazione di Giancarlo Cauteruccio del Krapp beckettiano viene riproposta in chiusura di “Orizzonti verticali”, e sarà un ritorno a quella scena, potentissimo. Cosa rimarrà, mi domando, negli occhi di uno spettatore al quale, per la prima volta, sarà dato cogliere l’esperienza e la sfida di quest’uomo di teatro che più è stanco e più è indomito. Come il suo personaggio, inventato tra un volto e una maschera che velocemente si travestono nelle espressioni di un ricordo che non si fa mai presente. Che rimane a distanza, quasi fosse, Krapp, l’unico abitante del mondo. Il tema del monologo “doppio” è noto, anzi esso è stato talmente metabolizzato dalla critica e dall’estetica novecentesche da ripararci da qualsiasi prova di commento. Valga la misura di quei tempi tragici e comici grazie a cui Cauteruccio ci ha reso il senso del registrarsi e di comporre un diario che diventasse letteratura orale. Ma non basta, perché quella che ascoltavamo era la voce di com’era la voce di un attore vent’anni fa, per cui sul palco parlavano in quattro, i testi erano due e lo scrittore era Samuel Beckett. Krapp e Cauteruccio erano assieme testimoni della memoria di una vita, del suo affannato riascolto, e assieme erano vittime dell’umana fragilità nel voler conciliare i tempi dell’esistenza in un unico linguaggio emotivo. Con la sapienza del suo realismo visionario Giancarlo Cauteruccio ha mostrato una capacità insuperabile di riproporre i temi perpetui della coscienza e dell’immaginazione umane, riuscendo infine a fondere e a coniugare ciò che sembrava impensabile in un solo scritto, in molte parole, in infinite espressioni.

Giancarlo Cauteruccio

L’ultimo nastro di Krapp è un dramma metafisico dinanzi a cui un pubblico desolato e curioso assisteva alla parabola privata e personale di un uomo che ci rappresenta tutti, consapevoli come siamo di una finitezza che ci spinge a non accontentarci del nostro prossimo, sino a quella manifestazione di orgoglio con cui vorremmo persino celebrare l’apparente fallimento di amicizie e di amori, come fosse la prova di una vittoriosa ribellione. Ed è nel ricordo più amaro che la voce registrata di un tempo evoca in Krapp, quello di una stagione amorosa trascorsa accanto a una donna ormai lontana, che il suo vivere va in pezzi. È nell’inatteso ascoltare la sua giovane voce innamorata, a lui stesso irriconoscibile, che aveva messo per sempre a memoria un bacio denso di sogni e di semplici attese («I suoi occhi si sono aperti. Mi hanno fatto entrare»), che il vecchio reagisce, come a cancellare con gesti inconsulti di rifiuto tutto quel materiale archiviato che gli impedisce di andare finalmente solo con se stesso verso la fine. Ci sono volute ancora una volta la sensibilità e la materialità di una poesia interiore, vocazioni che a Giancarlo Cauteruccio non sono mai mancate, per regalare a noi che lo seguivamo con affetto un’idea finale della vita, dei suoi enigmi e del suo mistero.

Quella stessa notte ho immaginato incontrarsi, in una via di Berlino o in un piccolo sentiero provenzale, Soghomon Tehlirian e Krapp, l’uno appena assolto da un’accusa irricevibile, l’altro appena liberato, per il suo ultimo tratto di strada, dal peso di una memoria senza soggetto.

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