“Ceppo” atto secondo a Pistoia
Le verità di Dante
Con la “lectio magistralis” di Filippo La Porta dedicata al Sommo Poeta si inaugura la seconda parte del Premio Letterario Internazionale Ceppo. Tra i vincitori Jean-Charles Vegliante, Beatrice Masini, Georgi Gospodinov. Anticipiamo la lettura di La Porta che prende avvio da un’intuizione di Simone Weil…
A Pistoia la seconda parte del 65° Premio Letterario Internazionale Ceppo, presieduto da Paolo Fabrizio Iacuzzi e dedicato ad anni alterni al Racconto e alla Poesia. Si articolerà dal 23 settembre al 17 ottobre in cinque appuntamenti che riguardano il Premio Ceppo Giovani-Bolognini e il Premio Ceppo Ragazzi, tutto all’insegna del Sommo poeta che con l’iniziativa “Dante al Ceppo 2021” trasversalmente visiterà ogni incontro. Tra i premiati Beatrice Masini, Jean-Charles Vegliante (tutti i dettagli del programma su www.iltempodelceppo.it). Prevista anche un’anteprima del 66° Ceppo, con l’incontro in presenza del 13 ottobre con lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, vincitore del Ceppo Racconto 2022. A inaugurare questo Ceppo Atto II, Filippo La Porta con la sua lectio magistralis “Dante nostro contemporaneo” che anticipiamo per i nostri lettori.
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Pur essendo un critico letterario che si occupa di narrativa attuale, e insomma un “contemporaneista” e non un dantista, da qualche anno mi sono immerso, anche un po’ casualmente, nell’opera dantesca. Ogni tanto per capire la propria epoca occorre un po’ distanziarsene. Non si può campare di soli Ammaniti e Mazzucco (e cito due tra i migliori). Credo inoltre che dobbiamo far parlare i classici, altrimenti fanno la figura dei preziosi violini Stradivari, custoditi perfettamente in una teca a Washington ma che nessuno sa più suonare. Dobbiamo rileggerli e ritradurli per le nuove generazioni digitali.
Dunque non faccio “critica dantesca” ma uso Dante come pensatore in versi, con cui dialogare su alcuni dilemmi morali del nostro presente. D’altra parte nella nostra tradizione “ragionare” è sinonimo di “poetare”. Su Dante ho pubblicato due libri. Ora ve ne parlo velocemente.
Nel primo – Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio, (Bompiani, 2018) – suggerisco di leggere la Divina Commedia alla luce di una folgorante intuizione di Simone Weil: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie». Il male è ben reale e tangibile, soltanto che nasce dalla irrealtà (dalla cattiva immaginazione) e fatalmente genera irrealtà intorno a sé, toglie un po’ di esistenza al mondo, condanna a una raggelata solitudine. Il bene ha a che fare con il dare realtà, con l’essere, con il far esistere qualcuno, con il fargli posto: «amare una cosa significa impegnarsi per farla esistere», ha detto una volta Ortega y Gasset. Quando nel Paradiso Beatrice parla della creazione degli angeli dice che Dio li ha creati non per avere “acquisto” di bene (dato che già Lui è il sommo bene) ma affinché quelli – benché con luce riflessa – possano affermare la propria esistenza. In età moderna questo tema della negatività del fantastico, della irrealtà nebbiosa che l’immaginazione produce, è stato variamente ripreso. Pensiamo a Dostoevskij. Nelle Notti bianche il diavolo dice: «Io sono un fantasma, un fantasma che ha perduto la nozione delle cose… passeggio e sogno” (Einaudi, 2014). L’invidioso si immagina una felicità del suo prossimo del tutto irreale, il superbo si immagina su un piano superiore e nega la reale uguaglianza delle creature, l’avaro si immagina (e si illude) di poter “possedere” qualcosa (ma nella vita tutto è precario e non si lascia possedere), l’iracondo si immagina capri espiatori (in realtà è accecato da un fumo nero e non vede più niente), il lussurioso è in balia del proprio immaginario, mentre il goloso assolutizza un piacere fisico su tutti gli altri e ne fa il surrogato di una pienezza del vivere che si sente preclusa.
Al centro del mio secondo, e non meno temerario, saggio dantesco – Come un raggio nell’acqua – Dante e la relazione con l’altro, (Salerno, 2021) – l’immagine del raggio che entra nell’acqua senza scompaginarla – canto II del Paradiso dantesco – diventa il paradigma di una relazione con l’altro che implica una profonda interazione ma che esclude possesso e violazione. Dante e Beatrice penetrano miracolosamente la luna come un raggio di luce entra nell’acqua, senza violarne la struttura. Soltanto il raggio ne viene lievemente deviato – angolo di rifrazione – mentre l’acqua è appena riscaldata dal raggio. Nell’incipit della terza cantica – intessuta di metafore della luce provenienti dal neoplatonismo e dalla Bibbia – Dio è anzitutto luce, prima ancora che potenza. Luce in possono mostrarsi tutte le creature. È condizione della loro esistenza. La stessa «regalità» viene ripensata in modo radicale: l’avverbio “umilmente”, preso da san Bonaventura a indicare san Francesco, diventa sinonimo di “regalmente”. Nel canto XX incontriamo l’anonima figura del pagano Rifeo – personaggio secondario dell’Eneide –, il quale «si eterna» non grazie alla fama letteraria ma in quanto uomo «giustissimo». Così Traiano, imperatore pagano, si salva non per aver conquistato, poniamo, la Mauretania ma per aver fermato un giorno l’intero esercito romano al solo scopo di ascoltare la supplica di una vecchiarella in lagrime. Ci si salva non per grandi imprese militari ma per una sola azione di amore gratuito, di ascolto caritatevole.
Traspare qui una diversa idea di grandezza, non più ricalcata sulla Storia, proprio come auspicava Simone Weil nel 1943. Certo, Dante ha sempre fatto politica, intende riformare l’umanità degenerata e combattere gli sterpi eretici, ha celebrato guerre giuste e crociate, si dichiarava a favore della liceità della vendetta… Era insomma un uomo del Medioevo. ma nel Paradiso ci consegna un’altra verità, più nascosta e impolitica, racchiusa in una abbagliante epifania lunare. Poi nel libro uso alcune figure di “Beatrici novecentesche” (Stein, Arendt, Zambrano) e il pensiero di Levinas, per ritrovare il tema della inappropriabilità dell’altro e quello della conoscenza come passività ricettiva. Da un lato la conoscenza tecnico-scientifica, Ulisse che oltrepassa ogni limite e si avventura nell’ignoto, dall’altro, nella relazione con l’altro, la conoscenza come attesa e passività vigile. Devo permettere all’altro di “raggiungermi”, nei suoi tempi e modi. Concludo il saggio con una ripresa della “mitezza” elogiata da Bobbio, per scoprire che forse l’imperativo morale più alto non è tanto e solo aiutare il prossimo ma lasciarlo essere quello che è, rispettarne la integrità. E in fondo Dante assegnando alla politica il fine di creare una pace stabile, ci dice che solo entro quella cornice pacifica finalmente ognuno sarà libero di essere quello che è.