Adelphi pubblica gli "Appunti, 1924-1993"
Labirinto Canetti
Nello zibaldone di riflessioni e frammenti narrativi di Elias Canetti il mister del pensiero e un monumento al dubbio come filosofia di vita. Perché in fondo «Dio ha commesso un lapsus quando ha creato l’uomo». Un libro da non perdere!
Un po’ di sangue italiano ce l’aveva per via della madre, Mathilde Arditti, di ricca famiglia sefardita. Ma anche spagnolo, in quanto commerciante ebreo di provenienza iberica. Premio Nobel per la letteratura nel 1981, due lauree honoris causa (conferitegli dalle università di Manchester e di Monaco). La sua lingua fu il tedesco. Parliamo di un gigante del pensiero, Elias Canetti (1905-1994), nato in Bulgaria, ostile al nazismo fu esule prima a Parigi poi a Londra. Gli anni più felici li trascorse a Vienna: «Vienna mi è di nuovo così vicina come se non ne fossi mai partito. È Karl Kraus ad attirarmi?». Kraus era un suo carissimo amico.
Canetti scrisse un unico romanzo: Auto da fé. E molti saggi tra cui Massa e potere, La lingua salvata, Party sotto le bombe, Il gioco degli occhi, e altre opere. L’editore Adelphi ha appena pubblicato il secondo volume degli Appunti, 1924-1993 (884 pagine, 18 euro). Data la mole dell’opera, suddivisa in paragrafi brevi o brevissimi, viene da pensare, leopardianamente, che «è dolce naufragar in questo mare». Dolce ma anche difficile, mancando un filo rigidamente conduttore (i lettori ci perdoneranno). Canetti, questo gigante del Novecento, pensava con la penna in mano. O, per usare le sue stesse parole, aveva «l’intelligenza ben tappezzata».
Sulla fede: «La maggior parte delle religioni rendono gli uomini non migliori, bensì più cauti. Quanto vale questo?». Canetti usa non di rado il punto interrogativo, quasi volesse rimandare ad altre domande, ad altri enigmi, di cui – ben lo sapeva – è infarcita la nostra esistenza. Per esempio: «Quando si è vissuti abbastanza a lungo, c’è il pericolo di soggiacere alla parola “Dio” solo perché c’è sempre stata». Un pensiero, a nostro avviso, demolitorio nei confronti della vocazione religiosa. La sua prosa, mai espressa in prima persona, s’addentra in quesiti profondi: «Forse tutti i pensieri, fino a oggi, hanno girato intorno a un pensiero che ancora aspetta di essere pensato. Forse tutto dipende da questo: che tale pensiero venga realmente pensato. Forse non è ancora del tutto certo che verrà pensato». Facile notare che il bulgaro non chiude mai le porte, semmai le spalanca. E lo fa con l’uso frequente del “forse”. Crediamo che sia sotteso il riferimento ai regimi dittatoriali in questa frase: «Gli uomini più tremendi: quelli che sanno tutto e ci credono». Più avanti una stoccata al veleno: «Ci sono solo popoli eletti: tutti quelli che ancora esistono». I sopravvissuti, i salvati, come ha scritto, per esempio, Primo Levi.
Premiato a Stoccolma per la Letteratura, Canetti si concede affreschi narrativi: «Un locale in cui tutti sono ammutoliti. I clienti siedono muti e prendono le loro bevande, soli o in gruppi. La cameriera porge muta a uno la lista, questi indica col dito, lei annuisce, gli porta quello che voleva e lo mette, muta, sul tavolo… si paga in monete che sono così domestiche come animaletti. Un gatto salta sul tavolo e domina il locale. Non è mai ammutolito, perché ha sempre taciuto. Ora il posto si anima, con l’arrivo dei morti». Oppure: «Montagne come azzurre linee del cielo in lontananza. Delicata, inafferrabile alterezza». È attentissimo a ciò che lo circonda e gli basta una pennellata per alludere a un dubbio: «I visi luminosi degli innamorati: in pubblico, come li vedo, o si corteggiano a vicenda o sono nel pieno della loro felicità. Non li vedrò quando si lasciano». Struggente è dir poco. In molte pagine più in là, scrive: «Anziché l’anello nuziale, quei due portano una piccola corazza nuziale su tutta la lunghezza del dito e con essa si prendono a sberle». Frase da evitare durante un matrimonio, tempo dedicato all’ottimismo e alla reciproca fiducia.
Sapeva essere anche sarcastico: «Successo è lo spazio che si occupa nel giornale. Successo è la spudoratezza di un giorno». Oppure: «In lui la curiosità si attenua: adesso potrebbe cominciare a pensare». La vita è effimera, si sa: «Ormai va solamente sotto i ponti che ha costruito lui stesso, in ogni altro luogo lo incalza l’angoscia». Maestro anche del dubbio: «L’uomo al quale chiese la strada indicò quattro direzioni diverse». Sullo scrivere: «Riscrivere una lettera, dopo chissà quanti anni… la matita si apre strade vigorose attraverso la palude della vecchiaia. La matita non s’impantana mai e non si perde d’animo».
Il pensiero abbonda di fascino, almeno per chi lo maneggia per bene. Ma ha i suoi rischi: «A furia di affinare le sue impressioni, le rende così sottili che a nessuno capita di averle». Sul presente assume un tono tutto sommato sconfortante: «C’è qualcosa di impuro nei lamenti sui pericoli del nostro tempo, come se essi potessero servire a scusare il nostro personale fallimento… qualcosa di questa sostanza impura è già presente fin dall’inizio più remoto nei lamenti funebri». A questo punto ci sarebbe da immaginare quanto Canetti scriverebbe del periodo Covid. Ce ne asteniamo, forse non siamo alla sua altezza, o comunque siamo ormai prigionieri delle frasi fatte.
Molte considerazioni di Canetti sono applicabili a realtà odierne. Si può pensare, per esempio, all’islamismo come sintesi del fanatismo. O al nazismo di meno d’un secolo fa. Questa la sua frase: «E se in realtà tutti credono il falso? Oppure ciascuno provoca il contrario di quello che crede? Guardali, i forti fanatici che hanno potuto credere tanto da contagiare migliaia e migliaia di persone! La dottrina cristiana dell’amore e l’inquisizione! I fondatori del regno millenario dei tedeschi: la loro dispersione, il loro smarrimento! Il bianco messia degli Aztechi nelle vesti degli spagnoli, che li distruggono. La separazione degli ebrei come popolo eletto e alla fine della loro separazione nelle camere a gas. La fede nel progresso: il suo compiersi nella bomba atomica. È come se ogni fede fosse la maledizione di se stessa. Si dovrebbe partire da questo per risolvere l’enigma della fede?». E a parziale corollario: «Si sente smisurato, eppure non conosce la misura». È più che un aforisma.
È inevitabile, parlando della fede, fare riferimento alla morte. A Canetti non piace il buddhismo «perché rinuncia a troppo. Non dà risposta alla morte, la aggira. Il cristianesimo ha comunque posto al centro il fatto del morire: che altro è la croce? Non c’è nessuna cultura indiana che veramente tratti della morte, perché nessuna si è posta assolutamente contro di essa: la vita, mancando di valore, ha sgravato la morte. Rimane ancora da vedere quale fede sorga nell’uomo che vede e riconosce l’enormità della morte e le nega ogni significato positivo. L’incorruttibilità che presuppone una tale concezione della morte non è mai stata raggiunta: l’uomo è troppo debole e abbandona la lotta prima di aver preso la decisione di cominciarla».
Il premio Nobel bulgaro non smette di indagare nei tormenti e nelle difficoltà degli uomini. Non trova risposte, semmai infila nei suoi scritti molti interrogativi, consapevole del fatto che «gli dei ci tormenteranno ancora di là dai vetri delle bacheche». Con doloroso acume pone sotto la sua lente di indagatore della psiche gli ostacoli che s’incontrano durante l’esistenza. «La cosa più difficile» scrive «è liberarsi da una vita in cui si è entrati completamente. Svincolarsi da tanti nomi che non ci guardano più. Espirare l’aria rubata, perché è diventata stantia. Infine aprire le mani che hanno trattenuto il falso». Poco più avanti: «La cosa più difficile di tutte è risparmiare agli altri la critica che si rivolge a se stessi. Un santo è uno che è riuscito a dirigere contro sé tutto il tormento morale. Il saggio, però, dovrebbe essere uno che non tormenta più nemmeno se stesso. Sa che la perfezione non esiste e la passione per la perfezione lo ha abbandonato». Come se per Canetti il dolore sia una malattia altamente contagiosa e ripetibile all’infinito. Erudizione e conoscenza della storia s’incrociano sovente nelle sue riflessioni. Si ha come la sensazione che Canetti si aggiri in un labirinto. Il suo passo è dolente, anche per la consapevolezza di non uscirne. Nemmeno volando: «Il suo pensiero ha le pinne anziché le ali». Il lamento può farsi spietato, anche se è condiviso con il resto della gente: «Dio ha commesso un lapsus quando ha creato l’uomo».