Flavio Fusi
Cronache infedeli

La vasca e il diavolo

Sono passati vent'anni dalla tragedia delle Torri gemelle: una vita intera, durante la quale tutto è cambiato. La storia che sembrava finita, si è riaperta come un baratro affacciato sul sangue (anche quello di Kabul). Dimenticando l'acqua quieta della Vasca del memoriale

Il nome di Alejandro Castano – quello che resta del suo corpo esploso e straziato e polverizzato – è inciso in lettere d’oro sulla balaustra di pietra lucida che circonda la grande vasca ricavata dalle fondamenta delle Torri gemelle di New York. L’11 settembre di venti anni fa, la sorella di Alejandro si torceva le mani e piangeva e si inginocchiava davanti a noi cronisti e ai soccorritori smarriti: «Vi prego, vi prego, cercate ancora nel tunnel… tanti sono scesi nei tunnel sotterranei, dopo l’esplosione». La polvere si sarebbe presto incaricata di seppellire queste ultime speranze: la densa nube di polvere che i venti dell’East River spingevano verso nord e nel ventre attonito della città sotto l’azzurro cielo di settembre.

Il memoriale di oggi – la vasca, l’acqua trasparente e discreta, la torre sottile lanciata verso il cielo – si incarica di trasfigurare la realtà in memoria: ordine dove allora regnava il disordine, pace al posto di guerra, il docile segno di una cicatrice di fronte al dilagare del sangue.  Venti anni – me ne accorgo ora, contemplando i miei ricordi e me stesso nello scenario dei ricordi – sono una vita. L’ 11 settembre ingiallisce e sarà presto solo una data nei libri di storia, come l’incendio del Reichstag o la caduta di Berlino nazista. È vero, come scrive Wislawa Szymborska: «Dopo ogni guerra c’è chi deve ripulire, in fondo un po’ d’ordine da solo non si fa. Non è fotogenico, e ci vogliono anni. Tutte le telecamere sono già partite per un’altra guerra. Chi sapeva di che si trattava deve far posto a quelli che ne sanno poco, e infine assolutamente nulla…».

Così lontano, eppure così vicino. Oggi la sconfitta dell’Occidente in Afghanistan è figlia diretta dell’11 settembre e chiude un ciclo: l’era che Samuel Huntington definì Scontro delle civiltà (“Clash of civilizations”): «Lo scontro di civiltà – scriveva nel 1996 lo storico americano – dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro».

Anche l’11 settembre chiudeva un ciclo: il decennio in cui la superpotenza americana – dopo aver schiantato il rivale sovietico – sembrava avere in mano le chiavi del pianeta e del suo futuro. Un’ età dell’oro che un altro scienziato della geopolitica, Francis Fukuyama, si azzardò a definire “la fine della storia” e la cui data di inizio coincideva appunto con la caduta del Muro di Berlino.

Quale migliore occasione per celebrare questa fine della storia, del sontuoso capodanno del Duemila? In quella notte di luci e di festa scatenata, la città di New York – trasformata in una turbolenta e gioiosamente peccaminosa Gotham City – festeggiava insieme la promessa trionfale del terzo millennio e il dominio incontrastato dell’America sul mondo conosciuto.

Al termine del conto alla rovescia, nel catino ribollente di Times Square, un boato accolse il “2000” tracciato nel cielo notturno in lettere d’oro. Trionfava in quelle ore l’Occidente nella sua versione americana, trionfavano i valori occidentali imposti a suon di cannonate da Mogadiscio a Sarajevo, da Beirut a Baghdad. Oggi riconosco in quelle immagini di travolgente vitalità una terribile manifestazione di Hybris: l’estremo peccato di orgoglio e superbia a cui gli Dei della storia risposero meno di due anni dopo con la saetta che fulminò le torri gemelle. E dovremo dare ragione al vecchio Norman Mailer che vide il diavolo – Belzebù – marciare alla testa della folla dolente che attraverso il ponte di Brooklyn fuggiva disperata sotto una densa pioggia di lapilli e cenere.

Dopo quell’11 settembre siamo dunque qui, in questa terra incognita che si spalanca oltre le periferie dilapidate di Kabul. Con le donne chiuse in casa per vergogna e per paura, con i giovani a cui viene negata una scuola, con gli artisti perseguitati come diavoli peccaminosi, con le minoranze etniche e religiose incalzate alla fuga oltre i confini.   

Nella nostra confortevole ridotta europea un coro animoso e talvolta compiaciuto ammonisce che «la democrazia non si esporta con le armi». Guai ai vinti. Su Bloomberg, lo scrittore indiano Pankaj Mishra parla di delirio imperialista, e commenta: «Riguardo al mito della costruzione di una nazione, dopo venti anni di fallimenti, nessuno crede più che un flusso di soldi preveniente dall’estero… possa aiutare a costruire un’economia moderna, figuriamoci una democrazia». Giusto, ma sommamente parziale: temo che nel nuovo ciclo storico che si apre a venti anni dalla caduta delle Torri gemelle, la democrazia non sarà una merce tout court “esportabile”: né con le armi, né con le buone maniere, né con l’esempio, né con la forza della ragione. 

De te fabula narratur: il fallimento afghano parla a noi, moderati e raziocinanti e prudenti cittadini della moderna agorà occidentale.  Stretta tra il dispotismo orientale e lo sfacelo africano, tra l’eterno pendolo latinoamericano di miseria e caudillos e la marea populista che assedia Washington, scossa infine dal sacrosanto assalto di chi fugge dalle innumerevoli nazioni fallite, la democrazia come la conosciamo può trasformarsi in una inerte variante geografica sempre meno fondata sui valori e sempre più aggrappata ai privilegi: una tribù tra le altre, minoritaria, rissosa, impaurita. E la nostra Europa rischia di ridursi a una zattera di pietra frustata dai marosi del mondo indecifrabile che sprofonda nel caos.

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