Cronache infedeli
La stagione di Angela
Finisce l'èra Merkel, la cancelliera «prevedibile» che con il suo stile ha segnato l'Europa e il mondo del nuovo Millennio fino a diventare l'ultimo baluardo della politica. Anche quando ha sorpreso tutti aprendo le frontiere tedesche a migliaia di disperati siriani
«Da quando riesco a ricordare, lei è sempre stata lì…». Parola di Josepha Albrecht, 17 anni, che era appena bambina quando Angela Merkel diventò la prima cancelliera della storia, nell’ormai lontano novembre del 2005. Non sono teneri con il monumento della politica tedesca, i ragazzi intervistati in un lungo articolo che il Financial Times dedica alla “generazione Merkel”: quei giovani che si preparano a vivere nella nuova Germania senza Angela, dopo le elezioni di domenica prossima, 26 settembre.
È giusto così: la sfrontatezza, spesso l’irriconoscenza, è un dono tutto giovanile. Ma è anche vero, come scrive sul Paìs il politologo Yascha Mounk, che c’è stato un periodo, durante i giorni più oscuri della presidenza Trump, «in cui Angela Merkel è apparsa davvero l’ultimo leader adulto sulla scena mondiale. Con gli Stati Uniti dominati da un estremista, con il Regno Unito precipitato nel caos, con l’India in caduta libera verso l’autocrazia, con la Russia e la Cina sempre più repressive e oscurantiste, la cancelliera tedesca rappresentava l’unico leader del mondo libero…».
Da lì, da quel periodo che ci sta appena alle spalle, dobbiamo dunque partire per una valutazione di questo fenomeno politico. Perché davvero si tratta di un fenomeno di longevità e di stile di governo. Quando Merkel fece il suo esordio sulla scena internazionale i suoi compagni di viaggio si chiamavano George W. Bush, Tony Blair, Jacques Chirac e Silvio Berlusconi. Uno sguardo appena superficiale a questo museo delle cere ci dice quanto il mondo sia cambiato da allora, e quanto la leader tedesca sia stata parte e a volte motore di questo cambiamento.
Veniva da tempi tempestosi, questa giovane politica: cittadina dell’Est comunista, figlia di un pastore luterano, reduce da brillanti studi scientifici, erede dell’ingombrante mole di Helmut Kohl. Per caso, fortuna o acume politico, la Germania ha sempre saputo scegliere con accortezza i suoi timonieri. Solo questo massiccio, affabile e inesorabile cancelliere democratico-cristiano poteva portare a compimento in tempi di ferro e di fuoco e a tappe forzate la riunificazione del Paese: in pratica la riconquista di Berlino, l’annessione della Germania dell’Est, la capriola dal comunismo al capitalismo senza farsi troppo male.
Ce la ricordiamo a Berlino, nei mesi tumultuosi dopo la caduta del muro, Angela Dorothea seduta a fianco di Lothar de Maizière, che fu per il breve tempo della transizione l’ultimo presidente della Germania Democratica. Veniva da lì, la giovane Merkel: da quella storia dell’Est, quella vicenda di illusioni e delusioni, di retorica e tradimenti, penuria economica e desolazione, sfociata nell’assalto al Muro e nella misera fine del mito comunista.
Dopo Kohl, Angela Merkel seppe aspettare l’esaurirsi della parabola di un altro grande cancelliere: il socialdemocratico Gerhard Schroeder, con i suoi strappi verso la modernizzazione del Paese, le riforme sociali contestate a sinistra, i primi passi nell’integrazione degli immigrati, ancora una volta la Germania trascinata a tappe forzate oltre il passaggio del millennio. I tempi politici non erano maturi, e forse non erano maturi i tempi di genere: il passaggio di testimone a una donna, la prima donna proclamata infine cancelliere nel 2005.
Dei compagni di viaggio abbiamo detto: bruciati dalla politica uno dopo l’altro. Alcuni con passo di tragedia, altri a ritmo di operetta. Berlusconi – il nostro, ahimè, Berlusconi – le fece cucù appostato dietro un albero durante un vertice europeo, poi inventò il gesto delle corna nella foto ufficiale. Infine – ormai in là con gli anni – la chiamò «culona». Merkel, fedele al suo stile, fece finta di niente. Reagì alla fine con un sorrisetto di compatimento più affilato di una stilettata.
Questo lo stile, questo l’approccio: costruire il consenso, lavorare per soluzioni comuni, credere al compromesso, non farsi affascinare dall’unilateralismo. Il merkelismo è stato per quindici anni la bussola della Germania e dunque dell’intera Europa. Ma oggi questa impostazione appare superata, dice il politologo Piotr Buras, autore di una indagine commissionata dal Consiglio Europeo per le relazioni estere (ECFR): «Il merkelismo non è più sostenibile, perché le sfide che ci attendono – la pandemia, il mutamento climatico, la competizione geopolitica – esigono soluzioni radicali, e non cambi cosmetici. L’Europa ha bisogno di una Germania visionaria».
È evidente: per una Germania visionaria bisognerà rivolgersi ad altri. Nei suoi sedici anni di governo Angela Merkel non è stata certo una politica visionaria, e solo in un caso le sue mosse hanno avuto il pregio di scaldare gli animi, di raccogliere insieme lodi e maledizioni. Fu la decisione storica di aprire le frontiere tedesche a più di un milione di rifugiati dalla Siria e dalle regioni circostanti durante la spaventosa crisi umanitaria del 2015 e 2016. Questo passo non ha cambiato l’Europa, ma ha cambiato la Germania e soprattutto ha cambiato la vita di migliaia e migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra. Non appartiene al capitolo delle grandi riforme, ma certo resta scritto nel grande libro dimenticato dell’umana solidarietà e compassione. Nei giorni scorsi il New York Times ha condotto una piccola, microscopica inchiesta: il suo inviato ha viaggiato in regioni città e villaggi tedeschi dove vivono bambine di cinque o sei anni che portano il nome – o la variazione del nome – della ormai prossima ex cancelliera. Le piccole, nate in Germania da genitori siriani, si chiamano oggi Angela, Angie, o addirittura Merkel, e anche AngelaMerkel. Exit ghost, lo spettro esce di scena: così si esaurisce una intera stagione politica e un lungo pezzo di vita. In una intervista di oltre venti anni fa, Merkel confessò che non voleva essere un «relitto» quando avrebbe lasciato la politica. Missione compiuta, e pazienza se Rover, che vive a Brema e ha sedici anni, la definisce una politica noiosa: «Ogni volta che si presentava un nuovo problema, sapevi sempre come avrebbe reagito. Era in qualche modo prevedibile».Testimonianza per testimonianza, siano messe a verbale anche le parole di Hibaja Maai, siriana, madre della piccola Angela che oggi ha cinque anni: «Angela Merkel ci ha salvato. Ci ha dato un tetto, ha regalato un futuro ai nostri figli. Noi le vogliamo bene come a una madre».