L'estate del nostro scontento?/6
Per la Bellezza
„Quello che mi fa dire che è “andata bene” è racchiuso all’interno dell’accezione che fa intravedere una via d’uscita: un “quasi” di cui l’Italia, e con lei la nostra identità genetica, è generosa, c’è tutto, c’è il resto. Fatto di Bellezza che resiste, che sopporta le offese»
Sì. Lo affermo. Rispondo alla domanda. Sì, è l’estate del nostro scontento. Elimino il punto interrogativo di getto, senza tentennamenti. Non mi piace quasi più nulla di questo Paese e in generale di come va il mondo. Se non fosse per chi ha risposto, suo malgrado, alla chiamata e segue una rotta, tenendo salda la barra del timone e ridando così un po’ di ossigeno alla nazione e a quanti ancora aspirano a un po’ di serietà, be’ se non fosse per “la pausa” Draghi, lo sconforto sarebbe ancora più insopportabile.
Non mi piace la cosiddetta “classe politica” (classe? Politica? superfluo parlare di litigiosità, convenienza elettorale alla faccia degli elettori), non mi piace l’informazione che ha perso autorevolezza, obiettività, senso dell’approfondimento, neutralità e con queste armi (che se affilate colpiscono nel segno) la capacità di informare. Non mi piace chi insulta, non mi piace chi si sente un maître à penser. Non mi piacciono i maître à penser, chi si sente migliore. Non mi piacciono i media che affogano nell’ignoranza, le televisoni che sul Covid vivono di rendita e pagano soldi sonanti (spesso di noi contribuenti) a esperti-Cassandra, narcisi e tra loro competitivi, non mi piacciono i social, covo di bullismo, falsità, insulti gratuiti, non mi piace il cybercrimine. Non mi piace la dittatura del cellulare, essere continuamente costretta a ricordare delle password per svolgere funzioni necessarie.
E non mi piace l’ignoranza al potere, la poca considerazione per la cultura, l’istruzione mandata al macero, le biblioteche – nostro immenso patrimonio, salvaguardia della memoria e del sapere – vergognosamente trascurate e condannate (senza personale né nuovi concorsi) a un destino di abbandono. Non mi piace la globalizzazione, chissà, probabilmente quello di cui ci ha privato è più di quel che ci ha dato. Non mi piace il Covid – come a nessuno del resto – e non mi piace, nonostante tutto, neanche il nostro sistema sanitario che funziona a macchia di leopardo, con zone di eccellenza e baratri di inadeguatezza. Abborrisco il dibattito coi no vax, ho in orrore solo il fatto che si debbano ancora e ancora far nascere fazioni su un tema così (e su altri, del resto), come se qualcuno fosse lieto di trovarsi nella condizione di farsi vaccinare e non fosse – questo gesto – solo una salvaguardia civile, personale e un obbligo sociale. Detesto aver creduto, anche solo per un attimo, che la pandemia fosse un’occasione per guardarsi dentro, aggiustare l’elenco della priorità, sperare che quella parola proferita in un piovoso pomeriggio di marzo (il 27 del 2020), in una piazza San Pietro bella al limite dell’allucinazione e via via sempre più buia, risuonasse nei cuori di credenti e non credenti.
Per poi accorgermi, invece, che questa emergenza sanitaria, a nessuno davvero imputabile, ha reso le persone più arrabbiate, più egoiste e aggressive. Non finirà qui e accogliere con mitezza l’inaudito, accettandolo e cercando di adattarsi docilmente al cambiamento sembra sempre più un’utopia. Non mi piace il razzismo che rimonta, l’intolleranza, i disvalori spacciati per valori. Sono stufa di gente che non sa diventare popolo, nazione, unico Stato, che non andrebbe mai con la sua barchetta a Dunkerque (un gesto che nessuna Brexit può cancellare), che non sa dove alloggia l’educazione, civica e non, e che non è neppure più capace di coltivare il proprio orticello (attività da svolgere, come si sa, con paziente modestia) perché vi pianta erbaccia velenosa in abbondanza.
Sì, è l’estate del mio scontento.
Ma poi mi sorprendo, e ascolto la mia voce che risponde agli amici, alle persone che si rincontrano nel luogo di vacanza e che ti chiedono un bilancio dell’anno… mi sorprendo a dire che è andata bene. E capisco che queste parole non sono di circostanza ma di sostanza. Non solo perché la devastazione della morte, della malattia, del lavoro perduto, delle imprese in rovina, della crisi che asfalta la volontà e la fantasia mi ha risparmiata. E non perché non mi sia sentita vicina alle sofferenze altrui, o in pena per amici in pericolo, comunque in apprensione. Quello che mi fa dire che è “andata bene” è tutto in quel “quasi” dell’inizio, è racchiuso all’interno dell’accezione che fa intravedere una via d’uscita. In quel “quasi” di cui l’Italia, e con lei la nostra identità genetica, è generosa, c’è tutto, c’è il resto. Fatto di Bellezza che resiste, che sopporta le offese. Pieno di vestigia, di storia stratificata, di profumi, di natura, di panorami, di «interminati spazi», di picchi e “mari nostri”, di aurore dalle «dita di rosa», di «sole dissennato», di rossi tramonti che tingono «il carnato del cielo», di lune graziose e cieli ammantanti di stelle da rimirare dove ancora un po’ di buio le esalta. Un universo variegato di cibi prelibati, di sapienze antiche, di paesi che odorano di legna bruciata, di gusto del convivio, di spirito, di fantasia, di intelligenza colta o spontanea, di genio e ispirazione, di musica, di arte e di poesia, di grandi schermi, di rappresentazioni, di incontri preziosi, di pagine da leggere e da rileggere, di anime belle, di autenticità.
Così, come fa Woody Allen in Manhattan, si impone l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere, dei ‘mi piace’. A me piace pensare alle persone che hanno attraversato il Tempo lasciando un segno, mi piace tentare di decifrarli quei segni in tutte le forme che mi corrispondono. Mi piace, mi piacerebbe, ascoltare parole di Verità, non solo opinioni che come dice Clint Eastwood nei panni dell’Ispettore Callaghan «sono come i coglioni, ognuno ha i suoi». Mi piace «la semplicità che è difficile a farsi» quando si fa davvero. Sono grata per quel che ho ricevuto, mi piace metterlo a frutto e rendere testimonianza, mi piace operare per qualcosa che permanga e che sia utile agli altri. Nel mio piccolo, dove miracolosamente alberga una grandezza tramandata nei secoli e ancora percepibile. E alla fine mi accorgo che è proprio nel punto interrogativo la cifra della possibile salvezza, un nucleo di speranza, un’ipotesi di futuro. E cambio idea, lo rimetto al suo posto.
Le fotografie sono di Roberto Cavallini