L'estate del nostro scontento?/3
Odio l’estate
«Ne usciremo, se ne usciremo, tutti minchioni. Devastati da mesi di serie televisive, di dibattiti su vaccini e varianti, incapaci di articolare un ragionamento compiuto, se esula da carica virale e o da declinazioni di quarantena»
Odio l’estate. Proprio come nella canzone di Bruno Martino, diventata uno degli standard jazz più eseguiti.
Odio l’estate, perché la mia famiglia viene dalla Sicilia, dove l’estate non finisce mai, e si sta chiusi al buio fino a sera ad aspettare che svampi, e si cerca refrigerio con i ventagli intercalando Maria, Maria, Maria, matri chi cauru!, e si mandano a farsi fottere le cicale che interrompono la siesta con il loro fragore.
Odio l’estate, perché la mia famiglia viene dalla Libia, dal deserto rosso di sabbie, dove l’estate è sinonimo di morte, di piaghe da insolazione, di carni e pattume in decomposizione.
Lo stesso odore con cui ci accoglie la cavea dell’Auditorium Parco della Musica, siamo qui per il concerto di Colapesce e Di Martino (che ironia e musica leggerissima ci vogliono in questo periodo di tormento) e i gradoni di travertino sono ricoperti di guano secco e fresco di gabbiani, sporcizia ovunque, come nel resto di Roma.
Solerti biondità di hostess redarguiscono il sudore del pubblico, che tengano la mascherina; in particolare, se la prendono con una coppia di ragazzotti davanti a me, che se la tolgono non appena le guardiane del Covid svaniscono nelle brume afose del tramonto. Io, in fondo, li capisco: ho un collume sparso tra barba e bocca in cui si arena il sudore e la mascherina mi strina feroce. Ed è proprio perché li capisco che li cazzio quando se la abbassano nuovamente.
Ma il mio è un appagamento temporaneo, la mascherina torna regolarmente giù non appena inizia il concerto e gli artisti siciliani intonano Paese che vai, stronzi che trovi. Mi chiedo se i ragazzotti abbiano partecipato alla manifestazione contro il Green Pass che mi ha poco prima bloccato a Piazza del Popolo. Blocco dovuto più alla quantità di celerini semicombusti che al numero di protestatari: alcuni colpi di sole, qualche Brigliadori, un po’ di fascisti che bollano romanamente il provvedimento di Draghi come nazista, assimilandolo ai Maghen David gialli dei deportati ebrei.
Fa troppo caldo, sono troppo stanco per cercare di trovare una logica in questa protesta assolata e solitaria: usciamo da un anno bestiale e anziché spogliarci grati per la concessione vacanziera che ci è stata fatta, riusciamo a incartarci in turille infette e propagatrici di varianti virate seppia, a scioglierci in polemiche da osteria, eterni Guelfi e Ghibellini, romanisti e laziali. C’è che si scaglia contro il dittatore sanitario, che, per una coincidenza neanche degna di un brogliaccio da Commedia dell’Arte, si chiama Speranza e ricorda ai facinorosi, e non solo, il Totò iettatore de La Patente. C’è chi si augura (moi aussi) che questa manica di idioti si contagi una buona volta e si tolga dai coglioni definitivamente, e biascica amaro che siamo un paese senza Speranza (e qui torna il cortocircuito alla frase precedente).
Eravamo già sospetti/Mostri perfetti/Che ne sa di noi la gente/Sparisca per sempre canta Colapesce,è la strofa di Rosa e Olindo, la canzone d’amore perfetta. E la gente sparisce, sparisce nel vapore estivo, si rinvia tutto a dopo agosto, che ad agosto, per definizione tutta italiana, non succede nulla, non può succedere nulla.
Fatto salvo l’agosto del 2019, uno dei più divertenti e animati che ricordi, con la crisi balneare del Papete e con l’avvocato Conte, che, da insulso burattino del governo gialloverde (quello che Artibani aveva battezzato il Governo espettorato di pensionato) si era piroettato, grazie alle alchimie di Matteo Renzi, nel ruolo di futuro salvatore della Patria. Dilagò, come il virus, su schermi e social, ci chiuse dentro casa, ci ammaliò con lo slogan: Ne usciremo tutti migliori.
Ne usciremo, se ne usciremo, tutti minchioni. Devastati da mesi di serie televisive, di dibattiti su vaccini e varianti, incapaci di articolare un ragionamento compiuto, se esula da carica virale e o da declinazioni di quarantena.
A me l’avvocato Conte ha sempre ricordato Lupo Alberto, il personaggio dei fumetti di Silver, non tanto per la sua malinconia da lupo innamorato di una gallina, ma per il suo muso sbilenco, per la sua espressione rassegnata quando Enrico, una talpa anarcoide e smargiassa, e, ça va sans dire, totalmente cieca, spunta fuori dalla terra e gli percuote l’oliva del naso gridando “Ehilà, Beppe!”.
Ecco, Enrico la Talpa mi sembra l’epitome, il compendio dell’Italiano: divertente, simpatico, ignorante e compiaciuto della sua ignoranza, sbruffone, cazzaro, sempre pronto a cornificare la moglie, vile e comico al tempo stesso. Proiettato fuori da un film di Alberto Sordi, sputato dalla terra, servile e furbetto, come un Arlecchino contemporaneo. E cieco, irrimediabilmente cieco, incapace di vedere aldilà del proprio buco nel terreno. È un buco pieno di escrementi, di malattia, di immondizia che si coagula al sole, ma è il mio buco.
Ma le talpe vengono da sottoterra, e Arlecchino, si sa, altro non era che un diavolo, un Farfarello, un Libicocco. Creature degli inferi, sono a contatto con il male, sono rappresentazioni ed emanazioni del male stesso, forse inconsapevoli, spesso colpevoli. Dietro la maschera che ci fa tanto ridere, che ci ispira simpatia, alla fine c’è il demonio.
C’è un maiale felice di rotolarsi nella sua guazza.
Nel fango affonda lo stivale dei maiali/Me ne vergogno un poco e mi fa male/Vedere un uomo come un animale. Il concerto è finito. Colapesce e Di Martino omaggiano nei bis Franco Battiato.
Non cambierà, non cambierà/Sì che cambierà, vedrai che cambierà.
Poi tacciono e lasciano dileguarsi nell’umido della notte la voce registrata del maestro.
La primavera intanto tarda ad arrivare.
E mi esplode un singhiozzo sotto la mascherina.
Le fotografie sono di Roberto Cavallini