“Il cauto emblema. Poesie 1945-2000”
Il miraggio capovolto
Così Pasquale Di Palmo riferendosi alla Venezia degli ultimi, dei sofferenti, al centro della poesia di Carlo della Corte, autore di romanzi, storie di fantascienza, fumetti, sceneggiature, giornalista e uomo di editoria, “maestro in ombra” di cui si ripropone l’opera poetica e (a breve) la narrativa
Una bella collana intitolata “Maestri in ombra” mette a disposizione del “pubblico della poesia” accurate edizioni antologiche di autori da tempo fuori catalogo e talora pressoché dimenticati, autori che in anni neanche tanto lontani hanno rappresentato con la loro presenza momenti non trascurabili dell’elaborazione poetica; penso a Diego Valeri (importante volume in preparazione), o all’istriano Ligio Zanini (volume pure meritoriamente in cantiere) o ancora, ed è il poeta di cui tratta questa nota, al veneziano Carlo della Corte (Il cauto emblema. Poesie 1945-2000, Il Ponte del Sale, Rovigo 2021, 240 pagine, 26,60 euro). Singolare figura di poligrafo cui si devono romanzi, storie di fantascienza, fumetti, sceneggiature, e ancora giornalista, uomo di editoria, della Corte è autore radicato nella sua Venezia, collocata al centro di una complessa storia di poesia. Pasquale Di Palmo, attento curatore della presente edizione, la ripercorre in un partecipe saggio introduttivo restituendo della Corte al suo tessuto geografico e soprattutto letterario, di cui individua le linee evolutive, gli scarti, per interrogarsi infine sulla sua parabola esistenziale.
Tutt’altro che isolato fu Carlo della Corte, in contatto con autori della statura di Zanzotto, che firmò il viatico alla sua seconda raccolta di versi (La rissa cristiana, Rebellato 1959), di Vittoro Sereni, con cui collaborò tra l’altro alla redazione della rivista milanese “Questo e altro” a metà degli anni Sessanta, di Federico Fellini di cui fu amico e con il quale progettò un film su Venezia che non si fece per la sopravvenuta scomparsa del regista. Sereni fu probabilmente il maggior punto di riferimento della poesia di della Corte, che da un iniziale orientamento endecasillabico e tardo ermetico (Cronache dal gelo, Schwarz 1956) muove consapevolmente incontro al rumore della prosa, sperimentando moduli narrativi, poematici che affiancano una vera e cospicua attività di romanziere cui della Corte si esercita negli stessi anni con passione e perizia. E giova qui dire come anche la sua narrativa, sempre a valida cura di Di Palmo, sia prossima a nuove edizioni che la riconducano ai lettori (in settembre uscirà presso Ronzani Di alcune comparse, a Venezia, già Mondadori 1968, forse il romanzo maggiore).
L’incontro tra poesia e prosa, si diceva, le predilezioni dichiaratamente “espressioniste”, il ricorso alla diversificazione dei registri sempre più caratterizzano il percorso di della Corte e ben si legano all’oggetto della sua poesia; una Venezia degli ultimi, dei sofferenti, un “miraggio capovolto” (così Di Palmo) in cui risalta tuttavia la vitalità e l’umana bellezza di una città oggi scomparsa per lasciar posto a una parvenza dominata – vexata quaestio – dalla monocultura del turismo che ha costretto i veneziani all’espatrio. Tutto questo viene in chiaro nella raccolta poetica della maturità, Versi incivili (1970), che Vittorio Sereni pubblica nel da lui diretto “Specchio” Mondadori, e raccoglie la produzione poetica di della Corte a partire dal 1960. Qui la scelta poematica appare compiuta e definita, e il modello per alcune suggestioni potrebbe essere il Bertolucci del romanzo in versi, dalla tessitura ampia e calibrata. Pure le cose non sono così semplici, perché se da un lato questa è, e sarà ancora, la “situazione” di della Corte nel prosieguo della sua scrittura in versi, è bene osservare come conviva con essa, e nel cuore del medesimo libro, una modalità invece altra e distinta, e destinata tuttavia a non ripresentarsi più.
Versi incivili, su cui Di Palmo incentra largamente la sua composizione antologica, contiene infatti le gemme di Un veneto cantar, dieci poesie in dialetto veneziano uscite in un precedente volumetto edito da Vanni Scheiwiller (1967) cui l’autore (nella foto) affianca un’analoga sezione – Altri zoghi – in sedici poesie. La voce trova in questi componimenti una linearità che sembrava esclusa da consolidate scelte critiche e ne costituisce un controcanto, un evento musicale a sé, una grazia malgrado tutto, quale non per caso il poeta presenta priva di riscontro italiano a fronte, a indicare l’unicità di quanto così accade e forse la sua irriducibilità. Rispettando tale scelta, e dunque senza traduzione, pensiamo giusto offrirne al lettore un esempio:
Lassa che i mesi se distira, vien
sempre tardi quel giorno che te cava
el respiro. Oh, come sgorlo
‘sto albero de pomi. Ma no’l buta
che qualche grama fogia e un fià de polvare.
No star a batar, ma varda che luze
ga sti pomi nel sol, varda che ciaro
se fa el campo de agosto, e sensa furia
lassa che el tempo te madura.