In margine agli ori di Tokyo
I campioni soli
L'Italia che vince alle Olimpiadi è decisamente migliore di quella raccontata da certa politica razzista e dalle serie tv. Atleti che sanno soffrire e sanno parlare dei propri problemi e della propria identità con naturalezza. Anche quando è scomoda. Forse, dovremmo imparare da loro...
Non è un caso che in queste olimpiadi i risultati migliori stiano arrivando da discipline individuali, quelle in cui l’atleta è perennemente solo. Che la solitudine sia determinante per il benessere mentale, che le persone abituate a trascorrere del tempo da sole siano risultate essere in media più soddisfatte di sé e della propria vita perché tendono a conoscersi meglio, che di conseguenza sviluppino una maggiore abilità nella gestione dello stress e meno inclini alla depressione, non è un segreto. Ma volendo andare oltre e leggere dietro i record e le eccezionali performance, si percepisce una grande dignità da parte di questi straordinari campioni, un messaggio chiaro indirizzato a tutti noi, vittime di una solitudine forzata dalla quale, al netto della paura di morire, di essere contagiati, di perdere i nostri cari, il lavoro, il benessere economico, forse abbiamo imparato ben poco. Abbiamo perso infatti l’occasione per tornare a fare i conti con noi stessi e impostare una nuova esistenza fondata sulla ricerca di quell’equilibrio interiore che produce innumerevoli effetti benefici andando a toccare ogni aspetto della nostra esistenza, da quello fisico a quello relazionale, sociale, affettivo. Per non parlare dei vantaggi che l’attività sportiva produce a ogni età e che spesso continuiamo a ignorare.
A Tokyo c’è un Italia più autentica di quella che ci viene quotidianamente propinata dai telegiornali, dalle lobotomizzanti serie tv oppure dagli assurdi e insensati proclami dei nostri peggiori politici, è l’Italia di chi dopo la vittoria non vede l’ora di volare negli States per riconciliarsi con il proprio padre (il velocista Marcell Jacobs), di chi si converte all’Islam per amore (il marciatore Massimo Stano), di chi dichiara apertamente e naturalmente la propria omosessualità (la judoka Alice Bellandi), di chi è stato adottato in Etiopia da una coppia di italiani dichiarando senza mezzi termini di essere eternamente grato ai suoi genitori per averlo salvato da una vita di stenti (il mezzofondista Yemaneberhan Crippa), di chi è stato abbandonato nella miseria di Cuba, cresciuto dalla nonna e giunto in Italia da irregolare prima di unirsi in matrimonio con una donna italiana che pratica la sua stessa disciplina (il lottatore Frank Chamizo), da chi ha subìto una grave lesione della cornea a seguito di una pioggia di uova che le sono state lanciate addosso durante un’aggressione razzista a Moncalieri e che nonostante tutto si dichiara fiera di essere italiana e che, infine, a seguito di quel tragico evento decide di intraprendere un percorso di studi universitario sulla giustizia criminale (la lanciatrice del disco Daisy Osakue).
Atleti italiani, ricordiamolo ai fascioleghisti che si oppongono allo ius soli sportivo, tutti appartenenti guarda caso a discipline individuali, ragazzi che hanno convissuto con la solitudine sin dall’adolescenza quando dopo la scuola entravano nel ciclo interminabile degli allenamenti o delle continue trasferte, a discapito di una gioventù allegra e spensierata. Ma ciò che la disciplina ha tolto, la disciplina ha restituito trasformando quei ragazzini in eroi adulti capaci di sconfiggere malattie (Gregorio Paltronieri), superare più di un infortunio (Gianmarco Tamberi, lo stesso Marcel Jacobs e tanti altri), vincere il panico e l’ansia o guarire da disturbi alimentari (Federica Pellegrini), risultati raggiunti anche grazie al sostegno degli allenatori, delle famiglie, dei mental-coach è vero, ma è altrettanto vero che gli obiettivi più alti non si raggiungono solo con il supporto esterno ma soprattutto grazie a quegli stimoli di carattere personale, privato, frutto di allenamenti continui e massacranti eseguiti per ore ed ore nel silenzio più assoluto, quando di fronte hai solo il rosso-arancio sintetico della pista, i pedali che muovono le ruote sull’asfalto o le pluricromatiche tessere azzurro blu di un mosaico a fondo piscina.
Sarà un caso? Credo proprio di no.