Viaggio in Sardegna
Gramsci e il demone
Cronaca di un imprevedibile percorso sardo, dalle estreme pendici del Gennargentu alla regione appena bruciata a nord di Oristano. Una sfilata di scoperte, nel nome di Antonio Gramsci, e di un suo libro da presentare al festival "Licanìas" di Neoneli
Il bosco di querce da sughero è interrotto, di tanto in tanto, da piccoli muri di fichi d’india. Oltre i fichi d’india si aprono piccole radure nelle quali si intravvedono immobili due, tre mucche che aspettano il loro destino, qualunque sia, senza ansia: vivere è aspettare, direbbe Beckett. Sono così inamovibili e perfette con le loro corna larghe che paiono un quadro di Fattori a tre dimensioni: solo il rumine sconfessa la rigidità della pittura. È la Sardegna, mediterranea anche in montagna; pendici occidentali estreme del Gennargentu, un balcone affacciato sull’oristanese. Da Ortueri (seicento metri di altitudine), volgendo lo sguardo a nord ovest, si vede il faro di Sinis (oltre gli stagni di Cabras). Ancora più a nord si percepisce il deserto del Monte Ferru, l’area di decine di chilometri quadrati bruciata qualche settimana fa. Ma in quest’inferno torneremo più avanti.
Sono qui per parlare di Gramsci, nato a pochi chilometri di distanza, Ales, e cresciuto qui sotto, a Ghilarza. Mi sento quasi blasfemo, a portare qui il mio Gramsci critico teatrale: devo presentarlo al pubblico di uno dei più singolari e affascinanti eventi culturali della Sardegna; di quelli che se non ci sei stato non ne conosci l’esistenza perché non è abbastanza trendy da finire sui giornali nazionali; ma, quando poi ci vieni, ne capisci il peso sulla crescita culturale dell’Isola dal numero incredibile di lettori incuriositi presenti. Si chiama Licanìas (sta per Leccornie, in sardo), lo dirige Alessandro Marongiu e da quattro anni si svolge a fine agosto nel paese di Neoneli: seicento abitanti, un bar, un supermercato, un gommista e una magnifica sfilata di case di trachite, la roccia rosa tipica di qui. Gli scorci delle piazze antiche all’improvviso si riempiono come per magia: decine, centinaia di persone attente, che seguono, fanno domande, apprezzano, contestano. Il mio Gramsci (Contro i comici, una raccolta di recensioni teatrali tematizzate e commentate che ho curato per Succedeoggi Libri) per fortuna è piaciuto.
Scendendo dalla Gallura verso il Barigadu (è il nome storico di questa regione), mi chiedevo come questa terra così lontana dai centri nevralgici della cultura potesse aver forgiato un genio come Gramsci. La risposta è qui, nella compostezza di questa gente mezza barbaricina, nella dignità con cui si informano, valutano e, sia pure con un certo distacco tutto sardo, partecipano. Ma è anche nella ricchezza di questa natura che mescola le querce alle pale dei cactus, il lentischio di campagna al ginepro di mare. E il massiccio del Gennargentu, lassù troneggia bianco. E sembra un pezzo di Dolomia incistato nel tirreno. La risposta è nell’identità profonda e profondamente condivisa di questa gente e di questa terra.
Parlo di Gramsci, dunque, della sua capacità geniale di interpretare Pirandello in diretta, della rudezza con cui tratta le donne-oggetto del teatro commerciale (alla Lyda Borelli) e di come non capì la comicità popolare (quella di Petrolini e Viviani) che, pure, gramscianamente portava in scena l’immaginario del proletariato. Una signora, neanche troppo piccata: «Ma non sarà che Gramsci, come molti di noi, qui in Sardegna, aveva un senso dell’umorismo diverso da quello dei comici romani e napoletani?». La verità, alle volte, è più semplice della complessità degli storici.
E la verità è che la Sardegna appartiene a se stessa: ogni tentativo di normalizzarla ha sbattuto contro la tenacia dei questi paesaggi e delle teste che nei millenni le hanno vissute. Mai dimenticare la lezione di Emilio Lussu. Attraversando l’Isola, dovunque si ergono piccoli o piccolissimi dolmen nuragici: un paesaggio inconsueto per chi, come noi altri, è abituato a colonne e fondamenta romane dappertutto. Le pietre dei nuraghi, spesso, adornano i muretti a secco che delimitano le proprietà: accadde quando il nuovo Stato italiano offrì gratis ai sardi le terre demaniali che fossero riusciti a cintare. Ma più spesso, quei vecchi muretti sono stati ricostruiti con pietre meno preziose e i resti dei nuraghi ricomposti alla buona, in mezzo ai campi. Chiamiamolo rispetto naturale per la storia. Si può dire lo stesso per il resto d’Italia?
Eppure, qualcosa si va perdendo, ormai: dovunque tu vada, anche nel cuore più impervio dell’Isola dove ora sono io, nei pochi ritrovi pubblici senti il battere ossessivo dei rapper all’italiana, o la voce flautata di Orietta Berti che ondeggia in mezzo ai suoni gutturali di due rozzi tatuati: la globalizzazione porta con sé una forte perdita di identità. Aveva ragione José Saramago quando lo diceva a proposito del suo Portogallo. Vale anche per la Sardegna: c’è come un demone che si contorce, inducendo le nuove generazioni a cercare omologazione in espressioni dell’immaginario estranee a se stessi. Qualche volta è una ricchezza, spesso è un impoverimento. Ecco perché Licanìas è importante: perché offre confronti consapevoli, critici. Ce lo dicono le dozzine di ragazzi di Neoneli che ogni anno si impegnano per organizzare il “loro” festival e poi, immancabilmente, stanno lì ad ascoltare, a domandare, a farsi firmare le copie dei libri, a offrire birra agli scrittori…
Ma il demone c’è ed è forte più che mai. Scendo dalle montagne e, giunto a Cabras, risalgo la costa verso Bosa: passato un caseggiato turistico inventato e senza storia, S’Archettu, entro nel territorio oristanese che è bruciato qualche settimana fa. La strada costeggia cenere per oltre venti chilometri. Dico proprio venti chilometri: contateli, se fate un viaggio e pensate di vedere per tutto quel tempo solo alberi bruciati. Uno spettacolo terribile, spettrale, inquietante. Il caseggiato di Cuglieri salvo per miracolo ma assediato dal nero; il paese di Tresnuraghes quasi distrutto. Uomini e animali perduti. E poi campi, querce, fichi d’india, cisto, lentischio, ginepro: solo cenere nera. Ho scoperto che il mirto, una volta bruciato, assume un colore rosso diabolico, terribile. I cartelli stradali accartocciati, tutto distrutto; per chilometri e chilometri. E penso alla mano che ha dato fuoco, alla testa che lo ha deciso, al pensiero di chi non ha pensato alla miseria che tutto ciò avrebbe indotto in sé e nei propri simili. Penso alle mucche di Ortueri che aspettano il loro destino che forse sarà questo immenso, inutile rogo. Sì, il demone è fortissimo.