Pier Mario Fasanotti
Su “Erdogan. Storia di un uomo e di un paese”

Erdogan, l’acrobata

Cristoforo Spinella analizza l'ascesa tumultuosa e la cupa gestione del potere e del consenso in Turchia da parte di Recep Tayyip Erdogan. Ne esce il ritratto di un leader capace di mille trasformazioni. Ma sempre con l'obiettivo di controllare il suo paese

Che aria tira a Istanbul? Domanda più che lecita e attuale, dopo tentati golpe e le riforme del rais, Recep Tayyip Erdogan, (nato 67 anni fa a Istanbul) il cui intento è quello – a parte quello di comandare senza opposizione “fastidiosa” – di calcare il modello europeo, anche se le trattative per includere la Turchia nella Ue sono praticamente fallite. Vecchie questioni, politiche, diplomatiche ed economiche rimangono ancora aperte. Come la spartizione di Cipro con la Grecia, l’esplorazione petrolifera condotta anche, o soprattutto, dall’Eni. Eppure la Turchia, durante la seconda guerra mondiale, fra equilibrismi politici e diplomatici e in un contesto interno completamente diverso da oggi, aveva attuato buone riforme, ma non così radicali sul piano dei diritti civili.

L’ascesa e la politica di Erdogan vengono minuziosamente descritte (anche con troppi andirivieni temporali) dall’informatissimo giornalista Cristoforo Spinella nel libro Erdogan. Storia di un uomo e di un paese (Meltemi editore, 196 pagine, 16 Euro). Brillante la definizione che l’autore fa di un paese cerniera tra oriente e occidente: “Democrazia velata”. Il riferimento è il turban, il velo islamico nella sua variante turca che copre il capo delle donne, anche quelle che, faticosamente e superando bagarre parlamentari, oggi occupano livelli dirigenziali di non poco conto. Il velo è ammesso, in un paese che fortemente vuole coniugare islamismo e democrazia. Oggi il turban: particolare importante perché è diventato simbolo di una moda che punta sull’effetto cromatico, dopo aver lasciato alle spalle la consuetudine del velo obiettivamente lugubre.

È stata lunga e complessa la strada che conduce al pieno riconoscimento dei diritti delle donne. C’è un esempio significativo: la biografia della combattente Merve Kavakci. Appena trentenne è stata eletta come parlamentare (nel 1999). Il primo caso di una “velata” che entra, come esponente del Fazilet Partisi (letteralmente Partito della virtù) nell’assemblea legislativa. La Kavakci ha soggiornato a lungo negli Usa, dove ha studiato (è ingegnere). Poi, figlia di docenti universitari, rientra in Turchia. Con coraggio, ma anche molte illusioni. Appena superata la soglia del Parlamento, scatena una bagarre maschilista: le urlano “vai fuori, vai fuori!”, e in molti minacciano di strappare il suo velo. Ci sono deputati che l’accettano, almeno formalmente, ma alla fine le appiccicano la definizione di “agente provocatore”.

Un’accusa, precisa l’autore del libro, che «non le impedisce di attraversare la politica turca e non smetterà certo di farlo con Erdogan al potere, cambiando solo obiettivo. Malgrado il primo ministro Bulent Ecevit affermi che la donna deve rimanere nel suo scranno parlamentare, la Kavakci lascia la Grande Assemblea Nazionale di Ankara (città formalmente capitale del paese, ndr.) per non farvi più ritorno». Non basta: sarà privata della cittadinanza turca e denunciata. Allora fugge di nuovo in America e lì ci resterà finché «non i compirà la rivoluzione per cui lei si è immolata». Donne col velo sono dappertutto. Qualcuno si chiede quando sarà tollerata la minigonna (sarà molto difficile; ci sono milioni di donne di serie B, almeno politicamente, in bilico tra costumi occidentali e orientali, che accettano di non osare d’essere in prima linea).

Poi un cambiamento: nei documenti d’identità e nei libretti universitari (dove le ragazze venivano “tollerate”) le giovani velate, sono per così dire garantite dal sistema. L’iter non è facile, anche quando, secondo autorevoli commentatori, i militari sono troppo deboli per opporsi al “nuovo”. Attualmente è normale vedere donne poliziotte (col velo), magistrate, funzionarie degli uffici pubblici. Oggi tutte le ragazze che vogliono portare il turban (coperti da esplosioni floreali e disegni fantasiosi) lo possono fare. E con questa new fashion compaiono alle fermate dei mezzi pubblici e sui cartelloni pubblicitari.

Occupiamoci ora del potere ventennale di Erdogan, il quale, a parte certe spinte laiciste, disse tempo fa: «I minareti saranno le nostre baionette». C’è un vago richiamo all’oratoria da balcone di Benito Mussolini. Scrive Spinella, l’autore della biografia del rais, ha avuto modo di «sfogare decenni di frustrazioni». Per prima cosa il suo principale obiettivo è quello di scardinare l’ordine repubblicano di Mustafa Kemal Ataturk (e dei cosiddetti “giovani turchi”), che aveva relegato ai margini della società le forti propensioni islamiche del paese. Quella di Erdogan è una metamorfosi verso l’autocrazia. Sempre secondo il giornalista-autore, «La Turchia era una cosa, fino agli anni Novanta, poi è cambiata». Insomma c’è un prima e dopo. All’origine di tutto, c’è l’ambizione sfrenata di Erdogan, il leader più longevo dell’ex impero ottomano. Sommando gli anni del potere come sindaco prima e poi come primo ministro, fino ad arrivare al ruolo del presidente. Ha superato, in questo, Ataturk, l’uomo che “ha rimesso insieme il paese facendolo rinascere nel 1923 sotto un’altra forma statale e nazionale, dopo la frantumazione, geografica e politica, di quello che era stato l’impero ottomano. Ataturk significa “padre dei turchi”, fondatore di un nuovo stato e primo presidente di una realtà politica nuova.

Erdogan, con alleanze spericolate e con un partito che lo appoggia (Akp), diventa, il 14 marzo 2003, primo ministro. Da quella data non c’è stato giorno in cui il rais non abbia avuto in mano tutte le redini del potere. La prima elezione al Parlamento è dovuta alla conquista del consenso a Siirt, (nel sud-est del paese) a maggioranza curda. Ha cambiato la Costituzione con una riforma presidenzialista. Ad Ankara sorge il palazzo del potere le cui dimensioni e stile architettonico ricordano quello del premier romeno Nicolae Ceausescu, la cui tragica fine è nota a tutti. Rappresentazione plastica di una nuova grandeur. I personaggi più importanti, turchi e non, di fronte a tutto ciò non potevano far altro che restare estasiati; e ripetevano: «Questo è un grande stato». Erdogan sapeva bene che la rappresentazione è uno degli elementi più importanti della sua politica. E non nascondeva certo l’ambizione di fare della Turchia una delle prime dieci economie del mondo. Gli ha giovato l’essere membro della Nato e nazione protesa (sappiamo come è andata) all’appartenenza europea: elementi che costringevano a guardare a Istanbul come paese cerniera ed esperimento dello sposalizio tra Islam e Occidente. I soldi dati a Erdogan per arginare il flusso degli emigrati è un duplice esempio: da un lato il rais assumeva un ruolo chiave, dall’altro dava sostanza al messaggio secondo cui, per usare le sue stesse parole «Io ci sono e ci sarò; la nazione deve solo affidarsi a me».

Una bella rivincita rispetto alla fama di calciatore (gli piace molto il calcio e si è mostrato più volte con i calzoncini corti con Pelè come allenatore: arma di forte propaganda in certe provincie) e agli anni passati in carcere (per istigazione all’odio e alla violenza razziale e religiosa). Erdogan è un equilibrista. E un cinico: «La democrazia – disse in un’intervista – è come un tram: quando raggiungi la tua fermata, scendi».

Erdogan, a parte lo sventolare delle sue bandiere politiche e nazionaliste, era costretto ad affrontare un compito difficile: risanare la traballante (o affondante) economia turca. Su quest’ultimo punto è intervenuto l’economista Carlo Cottarelli (Fmi), il quale ha fatto un ottimo lavoro, evitando ad Ankara la bancarotta, «spianando indirettamente, col suo piano di salvataggio», la strada all’ascesa di Erdogan. Negli anni Duemila, «l’Fmi diventerà uno dei simboli per eccellenza nella retorica dell’economia politica di Erdogan, vessillo per lui di un paese non più vassallo dei poteri forti internazionali. Il rais di Istanbul, ben lontano dalla gratitudine verso Cottarelli, non frena gli strali contro i banchieri di Washington: preferisce sganciarsi dalle politiche che lo hanno preceduto, non vuole mettersi nelle mani del più grande squalo dei prestiti del mondo».

È un fatto però che la crescita della “tigre anatolica“, tra il 2003 al 2007, vedrà la crescita del il Pil i misura del 6,7. Non solo: gli investimenti esteri a lungo termine sono decuplicati, la Borsa tocca livelli mai visti e la ricchezza pro-capite triplica, arrivando a sfiorare i 10 mila dollari a testa. Negli anni Ottanta e Novanta l’inflazione aveva toccato il 90 per cento. A parte l’ingratitudine – attribuita dal rais a passati governi – l’opinione pubblica, soprattutto quella internazionale, lo descriverà come un «lupo travestito da agnello». Di fronte ai rimedi suggeriti da Cottarelli, i tassi di interesse sono scesi troppo bruscamente. L’economia si era surriscaldata grazie all’inflazione. Rimanevano (e certamente rimangono) laceranti tensioni della Turchia, «da sempre risolte solo con profonde spaccature». Ma il rais è propenso alle vanterie: «Da oggi la Turchia non sarà più come prima».

Il partito Akp nel 2002 – con molti che si ritirano dalla scena politica locale – ottiene un terzo dei voti, «complice la mostruosa dispersione dei consensi, frutto dello sbarramento-monstre del 10%». C’è da dire che metà dei turchi non si è recato a votare: 15 milioni di turchi è rimasto senza rappresentanza politica. Intanto Erdogan attua la sostanza delle sue promesse, anche grazie al “rinculo” dei militari. Il presidente si occupa della sua immagine all’estero e comincia a viaggiare. Ottiene da Silvio Berlusconi un formidabile assist (fallito) per diventare membro della Ue. I due si piacciono. L’italiano compirà una delle sue tantissime gaffes quando, al matrimonio della figlia del rais le bacerà la mano: un atto blasfemo per i musulmani. Resta un mistero il mancato incontro tra i due a Roma.

Il 15 giugno 2016 c’è un fallito colpo di stato. Sventato in circostanze ancora poco chiarite. Il giorno dopo Ergogan vara il referendum per l’introduzione del presidenzialismo, approvato con il 51,4 dei voti.  Gli oppositori parlano apertamente di brogli elettorali. Il rais fa di tutto per evitare critiche (molti giornalisti sono in carcere) e opposizioni di carattere politico. E vara un’iniziativa simbolo: l’ex basilica di Santa Sofia viene riconvertita da museo a moschea.

Erdogan è un acrobata, e spesso la vince (ma fino a quando?). Gli è andata bene quando un aereo delle due forze armate abbattono un Mig sovietico nei pressi dello spazio siriano. Dopo alcuni mesi di gelo con Mosca, Erdogan “fa la pace”. Idem Vladimir Putin. Le svolte sono tante, compresa la presenza di forze turche nella zona libica. I suoi continuano a essere giochi ambigui, se non pericolosi.

L’intera vita di Erdogan ruota attorno il concetto di protagonismo. Che ora si fa ancora più palese dopo la vittoria (sic) dei talebani in Afganistan. La Turchia si è subito messa in fila, dopo Pechino e Mosca, per trattare con i nuovi padroni di Kabul. Protagonismo internazionale. Quanto può essere pericolosa la sua mossa in un’area ad altissimo rischio guerra?

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