Periscopio (globale)
Lo scrittore postumo
La casa editrice italiana Sur ristampa tutte le opere di Juan Carlos Onetti. Un'ottima occasione per rileggere (o scoprire direttamente) il grande scrittore uruguaiano e i suoi doppi mondi, dove realtà e sogno si intersecano in continuazione
Non sono poi molti i casi come quello di Juan Carlos Onetti, in cui letteratura e vita sembrano coincidere perfettamente, e la prima ha la tendenza a prevalere sulla seconda, piegandola ai propri misteriosi fini. Nell’immagine dello scrittore che passa gli ultimi vent’anni della propria vita quasi costantemente a letto, ad appuntare storie immaginarie e anzi a forgiare nella sua mente vita e avventure di un’intera città, sembra di cogliere una sorta di rinuncia all’esistenza fisica, percepita come disturbo e indebita distrazione.
Eppure, nei sessant’anni precedenti Onetti non era stato per nulla stanziale. Nato a Montevideo nel 1909, studente a quanto pare piuttosto mediocre, già a ventun anni si sposa e si trasferisce a Buenos Aires, dove lavora prima come venditore di calcolatrici, poi come giornalista e dove dieci anni dopo, nel 1939, pubblica il primo romanzo, El pozo, la cui prima versione era però già del 1932. Ad esso seguiranno un numero impressionante di racconti e altri romanzi che alla loro uscita saranno quasi ignorati e contribuiranno invece alla fama di Onetti ex post, dopo la sua “scoperta”, che avviene solo negli anni Settanta, grazie alla pubblicazione delle opere complete (almeno fino a quel momento) in Messico. Parlo, fra gli altri, anche dei primi romanzi dedicati alla città, immaginaria ma non troppo, di Santa María – un misto fra Buenos Aires, il cui nome completo è Santa María de Buenos Aires, e Montevideo, città per la quale Onetti ammise, nel periodo bonaerense, di provare nostalgia – e cioè La vida breve (La vita breve), Para una tumba sin nombre (Per una tomba senza nome), El astillero (Il cantiere) e Juntacadáveres (Raccattacadaveri), che escono fra il 1950 e il 1964. Negli anni Settanta Onetti diventa direttore delle biblioteche municipali a Montevideo, ma in ufficio pare si veda poco. È arrestato nel 1974 dalla giunta del generale Bordaberry e detenuto per ben sei mesi, reo di aver fatto parte di una giuria letteraria che aveva premiato un libro considerato pornografico, in quanto basato sul monologo interiore di un ispettore di polizia dedito a stupri e torture (El guardaespaldas di Nelson Marra). Onetti non ci pensa su due volte: prende armi e bagagli e lascia il continente alla volta di Madrid, dove vivrà con la quarta moglie, la violinista Dorotea Muhr, detta Dolly, sia pur quasi confinato in casa, fino alla fine dei suoi giorni, nel maggio 1994. Morirà infine per un’insufficienza renale, ma negli ultimi anni la sua salute era già minata dalle crisi depressive, dall’insonnia, dagli eccessi di fumo, di alcool, di barbiturici e, appunto, dalla sostanziale immobilità.
Conosciuto, anche da noi, dagli addetti ai lavori e da qualche lettore meno distratto, Onetti è stato pubblicato negli anni in modo frammentario ed episodico da vari editori (Einaudi, Feltrinelli, Editori Riuniti), ed è quindi particolarmente meritoria l’iniziativa di Sur di dedicargli un’intera collana e di avviare la pubblicazione sistematica di tutte le sue opere. Nei mesi scorsi sono intanto usciti La vita breve e Il cantiere, nelle traduzioni rispettivamente di Gina Maneri e Ilide Carmignani, con prefazioni affidate a Eduardo Albinati e Sandro Veronesi. Per il lettore italiano è un’ottima occasione per avvicinarsi a uno scrittore che, anche se non particolarmente ostico o difficile per linguaggio o costruzione, resta tuttavia difficilmente fruibile e incasellabile, lontano com’è da certi luoghi comuni da cui la letteratura latino-americana, dopo il suo famoso e famigerato boom, è spesso accompagnata. La narrativa di Onetti è resa spiazzante dal fatto che in essa non c’è realismo magico, non c’è alcuna concessione al fantastico, non ci sono descrizioni di una natura lussureggiante, non c’è nulla di torrenziale, di coloniale, di esotico o di eroico, né miti ed epopee. Ci sono invece dialoghi ben cesellati, ma che non sembrano approdare a nulla, incontri che possono produrre sviluppi o restare del tutto sterili, anime che si perdono e non si ritrovano, situazioni apparentemente eterne e inalterabili. Il vero ascendente va cercato semmai fuori dalla sua area geografica, nell’ambito più ampio della letteratura americana il cui nume tutelare per Onetti sarà sempre l’ineguagliato Faulkner.
La vita breve, opera fondatrice dell’epopea di Santa María, è un romanzo in cui avviene subito uno sdoppiamento di funzioni che può spiazzare (e dovrebbe però anche affascinare) il lettore. Onetti mette in scena un protagonista, Brausen, modesto impiegato di un’agenzia pubblicitaria, il quale, volendo scrivere una sceneggiatura per il cinema, finisce per inventare appunto un intero universo, in cui si rifugia, un po’ come l’autore del romanzo, per sfuggire al mondo fisico che gli ripugna sempre di più. In particolare, Brausen dà vita a due personaggi, Arce, un piccolo criminale – d’altronde, l’atmosfera inizialmente vuole essere quella di un hard boiled all’americana –, e il dottor Díaz Grey, la cui personalità si sviluppa fino a coincidere spesso, in qualità di alter ego, con quella dello scrittore, in un gioco di specchi e rifrazioni in cui il lettore deve anzitutto ambientarsi. Mentre il romanzo avanza, Santa María diventa un mondo sempre più a sé stante e resta in piedi anche quando Brausen rinuncia alla sua sceneggiatura e tutta la costruzione romanzesca non avrebbe dunque più alcuna ragion d’essere. Non solo, ma i personaggi, illuminati in momenti diversi della loro vita, ritornano nei romanzi successivi, senza che possa essere identificato un ordine preciso degli accadimenti, un sequel o prequel come quelli a cui ci hanno abituato le serie televisive. Nelle coordinate spazio-temporali di Onetti, che sembrano davvero vicine a molte delle più intriganti teorie fisiche degli ultimi tempi, gli eventi si confondono e si giustappongono, e quanto ai personaggi, essi scompaiono e ritornano con diversi gradi di approfondimento, non nascondono un certo smarrimento che si trasmette al lettore, la loro età e le loro finalità sono spesso indefinite, i loro rapporti corrispondono a un’infinità di variabili. Del resto, non è così che accade anche nella vita, con luoghi e persone che vanno e vengono, appaiono, scompaiono e ricompaiono a seconda dell’importanza che siamo disposti ad attribuire a ciascuno o ciascuna di loro nelle varie fasi della nostra esistenza? Lo scrittore spagnolo Antonio Muñoz Molina, grande estimatore di Onetti, ebbe a scrivere che Santa María è un distillato e una mappa del tempo e dello spazio. Anche lo status di protagonista passa di mano: nei romanzi successivi al primo, a Brausen sarà stata dedicata una statua quale fondatore della città, e il testimone passa a un certo Larsen, impegnato in due difficili imprese, dapprima quella di amministrare un cantiere in rovina e in seguito di far accettare ai notabili del posto l’apertura di un bordello, ma tutto ciò senza troppa convinzione, scontrandosi anzitutto con la propria connaturata inerzia. Né manca nel primo romanzo (e come potrebbe?) la comparsata di un personaggio chiamato Onetti, che affitta un ufficio a Brausen e che questi descrive come persona piuttosto indisponente. Per dare un’idea di come lo scrittore giochi con i suoi personaggi e le sue ambientazioni, basti aggiungere che la figura di Larsen verrà ancora “resuscitata” in Dejemos hablar al viento (Lasciamo che parli il vento), del 1979, e che una prima menzione di Santa María appare già nel racconto Excursión, che è del 1940. L’idea di Santa María ha insomma accompagnato Onetti per ben quarant’anni.
Il Premio Cervantes, ottenuto nel 1980, non vale a indennizzare Onetti per il mancato successo dei suoi libri, di cui altri scrittori, più fortunati in termini di pubblico e giudizi critici, hanno sfruttato nel frattempo i meccanismi e le innovazioni stilistiche. Un’abitudine alla sconfitta – per due volte si era visto in precedenza soffiare il prestigioso premio Rómulo Gallegos – che Onetti, unendola a tutte le altre disillusioni che l’esistere ci riserva, aveva intanto trasformato in una specie di filosofia di vita. I suoi libri ruotano del resto intorno alla capacità dell’uomo di rispondere appunto a tutte le disillusioni con una pervicacia che lo rende eroico ma non per questo vincitore; al contrario, è sottinteso che gli sforzi dei personaggi saranno per lo più vani, che la loro esperienza sarà un’esperienza di disinganni, nel puro solco del barocco spagnolo. I suoi sono quasi sempre personaggi sconfitti, inerti, marginali, dei falliti impegnati in imprese senza senso. Ma sono (quasi sempre) anche innocenti, vulnerabili, anelanti alla gioia, e noi lettori vorremmo disperatamente per loro un destino diverso, più felice. Il pessimismo di Onetti, tuttavia, non è né gratuito né cupo, e la rassegnazione appare come una prova di lucidità. Del resto, una delle sue qualità precipue, oltre alla timidezza, era l’ironia, che traspare dalle poche interviste concesse e dalle rare apparizioni pubbliche. Quando suonavano alla sua porta per intervistarlo, pare che spesso vi facesse passare sotto un foglietto su cui era scritto semplicemente: “Onetti no está”. E allo scrittore Serrano Soler che lo ringraziava per avergli concesso un’intervista rispose sornione: “Grazie a lei per il tempo che ha perso.” Calzante anche la sua definizione dei critici letterari, da cui traspare l’amarezza per essere stato preso in considerazione troppo tardi, ma anche un inguaribile sarcasmo: “Sono come la morte: a volte ritardano, ma arrivano sempre”.
Per Onetti la creazione letteraria era a un tempo tutto e niente. Da un lato, ai propri libri attribuiva un’importanza così relativa da perdere e dover riscrivere per ben due volte il libro d’esordio, e da smarrire successivamente anche un altro manoscritto, quello di Tiempo de abrazar, che non sarebbe mai più riuscito a riscrivere integralmente. Dall’altro, scrivere per lui era tutto e avrebbe finito per sostituire qualunque altro passatempo o impiego del tempo. Talento, immaginazione e tecnica, insomma, al servizio della finzione, ma di una finzione totalizzante che per sostituire l’angosciante realtà dev’essere cesellata e costruita nel migliore dei modi. Fino a rivaleggiare con Dio (come tentarono di fare, con preoccupazioni e risultati diversi, già Joyce e Dos Passos) e creare appunto una realtà “altra” o alternativa, dove anche gli antipatici e coloro che non stanno al gioco sociale dei complimenti incrociati fra scrittori possano ritrovarsi e sopravvivere. Non a caso, l’ultimo libro si intitola Cuando ya no importe; e sembra un’ottima formula di chiusura e di addio per chi aveva stabilito di voler rimanere indifferente a tutto ciò che non fosse la sua passione totalizzante, quella per la scrittura.