Due romanzi di Georges Simenon
Laboratorio Simenon
“La fattoria del Coup de Vague” e “La mano“, due opere forse non completamente riuscite, ci aiutano a entrare nei meccanismi della scrittura del narratore belga. Nella sua capacità di rovesciare i destini a partire da un particolare apparentemente insignificante
Nessuno sa con precisione assoluta quanti libri abbia scritto George Simenon. Tutti lo conoscono bene come l’inventore del commissario Maigret, con la pipa, la birra, la moglie accomodante, infaticabile negli interrogatori, che possono durare anche un giorno e una notte, con il via vai dei camerieri muniti di panini e birra. Ne ha scritti 75, dal 1930 al 1972. Tutti tradotti in origine da Mondadori, di cui era amico. Poi ci sono quelli che Simenon chiamava “roman roman”, o “romanzi duri”. I diritti di questi sono passati alla Adelphi, che fu veloce ad accaparrarseli, approfittando della “distrazione” mondadoriana (e si accaparrò anche i Maigret, che ora ha pubblicato integralmente con nuove traduzioni). Infine, ci sono quelli che quel mostro sacro (detto laicamente, è ovvio), firmò con vari pseudonimi. Simenon era un maestro di velocità: una settimana per la prima stesura, un’altra per “aggiustarli”, facendoli “dimagrire” rispettando il consiglio che gli dette la collega Sidonie-Gabrielle Colette, la seconda donna francese ad avere i funerali di stato («Togli il grasso, taglia il superfluo», gli raccomandava). Simenon scriveva solo la mattina, dalle sei a mezzogiorno, confortandosi con una bottiglia di vino e spesso con il sesso (si dice abbia avuto oltre mille amanti, quattromila secondo un traballante mito).
Tra i romanzi editi dall’Adelphi è difficile dire quali siano i migliori. Recentemente ne sono apparsi due: La fattoria del Coup de Vague (142 pagine, 18 euro) e La mano (172 pagine, 18 euro). Francamente – questa, perlomeno, è la mia impressione – non sono tra i suoi migliori. Comunque offrono l’occasione per sviscerarne la struttura, captare i leit motiv, e trame che hanno difetti. Il romanzo La mano è ambientato a Brentwood, nel Connecticut (Simenon trascorse molti anni negli Stati Uniti; alcuni sostengono che il trasferirsi oltre l’Atlantico gli dava l’opportunità di scrollarsi di dosso una fama negativa, ossia di essere molto vicino al generale Filippe Petain, fondatore della repubblica di Vichy in quanto collaborazionista dei nazisti occupanti).
Ne La mano, domina violentemente la tempesta di neve, che interrompe le comunicazioni e l’elettricità. Le strade sono bloccate. Il protagonista è un avvocato, Donald Dodd («45 anni suonati»), sposato da 17 anni con l’algida Isabelle, che nasconde tutto con il sorriso dell’enigmatico che coniuga la serenità con il mistero. Simenon scrive che «non fa pensare a una camera da letto». Ebbene, dopo una festa in una grande villa, dove si beve a dismisura, e dove Donald assiste a un focoso quanto breve rapporto sessuale (in bagno) tra il suo amico e una certa Patricia, il faticoso ritorno a casa. In fila indiana percorrono centinaia di metri. Ci sono anche gli amici Ray e sua moglie Mona. Vicinissimi a casa Donald, Isabel e Mona si accorgono che manca Ray. Bisogna trovarlo. S’incarica Donald, con in mano una pila semi-scarica. Non lo trova, oppure si stanca di cercarlo. Potrebbe essere scivolato in una scarpata. Donald invece di entrare nella sua casa, si siede sulla panchina rossa che c’è nel garage. E qui comincia a rimuginare sul fatto che il mancato o interrotto soccorso dell’amico equivale a un’uccisione. Sta delle ore così, fumando dieci sigarette. Il giorno dopo un poliziotto non vede le cicche, non perché distratto, ma perché non ci sono. Le ha tolte la pragmatica Isabel, sempre col sorriso sulle labbra: comprende la colpa del marito, ma non ne parlerà mai. I suoi occhi non tradiscono alcuna ansia. Quella donna «è una statua» penserà suo marito nelle ultime pagine del romanzo.
Nella villa dei Dodd si accendono le candele, si portano i materassi vicino al camino acceso. Fa molto freddo. Donald (che beve spesso) si distende sul materasso accanto a quello di Mona. Osserva la mano della sua amica, ha la tentazione di accarezzarla. Alla sua destra dorme la moglie. È turbato. Anche perché pensa alla propria responsabilità nella scomparsa di Ray. Questo episodio, assieme alla lunga sosta nel garage, fa scattare una misteriosa molla (in molti roman roman Simenon rompe il meccanismo interno dei suoi protagonisti, ribaltandone violentemente l’esistenza, esemplare da questo punto di vista è il romanzo L’uomo che guardava passare i treni). Da quel giorno, l’avvocato Dodd non si sente più se stesso. Finisce di nevicare anche se le folate di vento sono gelide. I mezzi di soccorso intervengono e liberano tratti di strada.
Le elucubrazioni di Donald sono ripetitive. Come è ripetitiva l’attenzione di Simenon sul sorriso di Isabel. Il prolifico autore in questo caso non segue i consigli di Colette. È come se il lettore avvertisse un fastidio: vabbè, ho capito ed è inutile che l’autore mi ripeta, sia pure in forme diverse, scene e stati d’animo… Il disagio di Donald viene descritto in tanti modi, decisamente troppi. Come è ridondante l’attenzione sull’inspiegabile Isabel.
Quando la natura torna a una quasi normalità, si troverà il cadavere di Ray. La moglie, anzi la neo-vedova di Ray torna nel suo lussuoso appartamento newyorkese. E Donald si offre di sbrigare questioni legate all’eredità di Mona. La va a trovare, così come si rifà vivo con i colleghi del suo studio. Non passa molto tempo che i due finiscono a letto. Eccitata lei, perplesso lui, che però a causa di una profonda solitudine non avverte come imperiosa l’attrazione per l’amica. Nemmeno quando Mona, con estrema naturalezza si spoglia, si riveste e passa del tempo davanti allo specchio per truccarsi; come se non avesse pudore. Le voci corrono nel quartiere newyorkese anche perché i due escono, passeggiano, pranzano insieme nei ristoranti alla moda. La love story è destinata a finire, dopo una vacanza di Mona. Ovviamente non riveliamo i tanti perché. Donald sente il bisogno di far visita al quasi ottantenne padre, che continua a stampare un giornale che è letto, se va bene, da una trentina di persone. Tra i due la comunicazione e esile e frammentaria. Donald, nemmeno così, riesce a trovare parole di conforto e nemmeno spiegazioni sul girovagare della sua anima inquieta. Il finale è simile a quello di altri romanzi simenoniani. Forse troppo simile.
L’altro romanzo cambia fondale. Non più l’ambiente dei super-ricchi, ma la vita in un paesino nei pressi di Rouen. Qui varie famiglie si occupano della raccolta e vendita dei mitili (uno degli acquirenti principali è l’Algeria). Il protagonista è il giovanotto Jean, che abita assieme alle zie Hortense ed Emile. Una vita faticosa all’ombra di chi lo tratta come figlio. Di Jean, Simenon ci offre questo ritratto: «…era un ragazzone alto e robusto, ma sua zia era alta e robusta quanto lui, anzi ancora più coriacea, granitica, solida, e sembrava fatta anche lei di calcare come le ostriche e le rocce». Famiglia che vive di stenti, ma propensa a mantenere un comportamento neo-borghese e una facciata di granitica rispettabilità. Jean lancia molte occhiate a una giovane vicina di casa, Marthe. Nasce un sentimento tenero. Non riveliamo, ovviamente i rapporti d’amore tra i due giovani, limitandoci ad accennare alle manovre per un aborto, ai sospetti e agli agguati di un giovane che pare sempre disorientato per la consapevolezza – non interamente percepita e metabolizzata. Si arriva a un matrimonio casalingo. Spunta però la parola “assassinio”. Simenon aveva questa abitudine: sul retro delle buste postali annotava, di ogni personaggio, caratteristiche precise, delusioni, ambizioni, scoramento e decisioni prese d’acchito (il famoso meccanismo intimo che “scatta” e rovescia l’esistenza). Capita però che l’autore scivoli nell’abbondanza dei particolari. Lo fa in maniera quasi notarile. Va bene sottolineare alcuni aspetti dei protagonisti, come la femminilità di Marthe («…il profumo di iris, la sua arrendevolezza in contrasto con il caratteraccio di suo padre»), ma la prosa si fa un po’ ridondante quando di ciascuno narra in modo pignolissimo il passato, la famiglia, le parentele, il cerimoniale di certi incontri. Al lettore basterebbero alcune lievi pennellate narrative. C’è il rischio, appunto, di scavare troppo in vicende laterali. Tutto questo, ovviamente, induce il lettore a tuffarsi in un mondo non suo, ritratto con tecniche “fiamminghe”. Insomma, è sempre in agguato il rischio di affogare tra mille particolari.