Piedi per aria
La Coppa Covid
Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, disse Pasolini nel 1970. Oggi, forse, direbbe che è sacrilega. Perché di peccati il calcio continua a commetterne. Quasi quanto la politica. In Italia e nel mondo. Malgrado la vittoria scacciapensieri di Mancini & Co.
Da un anno e mezzo si aspettava qualcosa del genere, una ubriacatura collettiva che scacciasse via l’incubo che avvolge il mondo intero, una pestilenza che non ci lascia più ed ha sconvolto le nostre vite. Essere campioni di Europa infonde un po’ di speranza e quindi va detto subito grazie agli azzurri del pallone, un piccolo segno di rinascita, una spinta a fare ed a ricominciare.
Abbiamo vinto pulito senza barare giocando un bel calcio moderno non catenacciaro, non quello di una volta all’italiana. Chiesa e Insigne, Bonucci e Chiellini e tutti gli altri hanno addirittura costretto gli inglesi, sempre arroganti al punto di credere di aver già vinto la finale prima di giocarla, a chiudersi nel loro fortino e ad alzare barricate: sono stati loro a fare catenaccio. Così trentanove anni dopo la notte di Madrid, quella di Pertini che non si teneva in tribuna e che prendeva in giro i tedeschi, c’è stata un’altra notte dell’11 luglio, la notte di Londra che ha fatto sorridere persino Mattarella, tutto serio e composto al contrario del suo lontano predecessore. E all’ultima, decisiva parata di Donnarumma ai rigori è scoppiato il putiferio nelle piazze italiane, caroselli caciaroni che non si ricordavano più, fuochi d’artificio e fiumi di volemose bene. Questa volta è stato quasi un rito liberatorio e non solo la festa per una vittoria (anche se gli incidenti non sono mancati…). Uno scorrere di lacrime dopo aver visto quei due, Vialli e Mancini, abbracciarsi ancora una volta e piangere di gioia. La foto-simbolo della serata.
Il titolo europeo non ci guarirà dalla pandemia. Al contrario, farà da untore dopo le adunate collettive. Né agevolerà la ripresa economica, se non ci metteremo a lavorare con serietà. Ma un momento così serviva, dopo tanti morti e tanti malati. Soltanto il pallone e certi funerali riescono a riunificare questo Paese sempre discorde che pure aveva provato a stare insieme, a farsi coraggio nei primi mesi di Covid quando apparvero ai balconi e sui terrazzi lenzuoli dipinti da pennarelli arcobaleno e striscioni esorcisti: andrà tutto bene. Non è andata proprio così. E l’Italia s’è scollata ancora di più e chi stava peggio s’è ritrovato ancora più sotto.
Il pallone però ha demolito paure e pensieri, incrociando ancora una volta il suo cammino con quello della realtà quotidiana e intercettando la politica. Avevamo spalancato le porte dalla fine di aprile. Basta con zone rosse, gialle, arancioni. Aprite ogni buco, via le mascherine, anzi no, via i coprifuochi, ammucchiatevi pure ma con giudizio, fatevi il vaccino e sarete salvi. Soffiava un vento favorevole a poppa già a metà febbraio quando l’uomo che tutta Europa voleva saliva al Quirinale. In contemporanea, l’undici con la maglia azzurra buttava giù a mano a mano i birilli avversari preparando l’impresa. Un’atmosfera positiva, non fosse per l’ammucchiata governativa che sembrava, ma solo apparentemente, distendere gli animi. Nonostante i bollettini di guerra, gli ospedali di nuovo pieni, le altre angosce. Mario Draghi e Roberto Mancini hanno destini paralleli, considerati uomini di successo e di prestigio. L’uno, il premier schiacciasassi, così lo celebrano i giornali benigni, cioè quasi tutti, ora che ha piazzato anche Carlo Fuortes alla Rai, è riuscito a realizzare in cinque mesi di governo (l’elenco è di Claudio Cerasa, il direttore del Foglio): la campagna vaccinale, la riapertura anticipata del Paese, il piano di ripresa economica, lo sblocco dei licenziamenti, la riforma della giustizia. L’altro, l’allenatore, ha portato in giro la bellezza del nostro stivalone parlando, negli spot insistentemente in onda, delle Marche o delle Poste. Esibendo una nazionale di calcio – che era a pezzi e mortificata – gradevole e con carattere, e collocandola sul tetto d’Europa. Sempre elegante, misurato, il Mancio, con le sue sciarpe di cachemire o le polo di Paul&Shark. Uno, l’ex banchiere, destinato al Quirinale, l’altro, il tecnico vincente, chissà. Un giorno Salvini potrebbe proporcelo come ministro di un suo governo (ma ci sono i Mondiali).
Il racconto dei media in questi mesi è stato più o meno questo. Non a caso entrambi sono in cima a sondaggi e gradimenti. Si sa che da un pezzo non si ragiona di politica ma soltanto di singoli protagonisti, di scenari possibili, di alleanze coatte, di numeri che non significano nulla considerato che il primo partito in Italia, tra il 38 e il 42 per cento, è fatto da coloro che non votano.
Prima dei caroselli notturni per le vittorie del calcio, ci sono state le notti delle movide, gli aeroporti di nuovo brulicanti di passeggeri, le città non più deserte e toccate ancora dai turisti, gli aliscafi e i traghetti per le isole affollati, gli uffici a pieno regime o quasi. Il rischio è calcolato, disse Draghi. Lo continua a dire. I contagi risalgono? La pandemia riprende vigore e grava sulla ripresa? La variante Delta dilaga? Pazienza. Non possiamo restare prigionieri del Covid in eterno. Draghi non lo dice, Boris Johnson invece sì. Il primo ministro inglese, battuto e in ritirata («risultato straziante…» quello di Wembley, ha piagnucolato), lo ha da sempre teorizzato: ci saranno altri morti, ma noi riapriamo il Paese. Whatever it takes, costi quel che costi.
Servono comportamenti responsabili: è la hit di questa estate. Lo scorso anno era: non abbassate la guardia. Appelli inutili, retorica pura. Speranza, il bravo ministro della Salute, esausto, in questi giorni aveva una vocina ancora più malinconica: tifate Italia ma mettevi la mascherina, ha sussurrato alla vigilia della domenica londinese, con una battuta che neanche Mario Marenco avrebbe concepito.
Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, disse Pasolini. «È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci». Era il 1970, due anni prima avevamo vinto l’unico, fino al successo sul prato di Wembley, titolo continentale della nostra storia calcistica. Oggi forse Pasolini correggerebbe quell’aggettivo: non rappresentazione sacra ma sacrilega. Perché di peccati il calcio continua a commetterne. Quasi quanto la politica. In Italia e nel mondo. Neanche se ne pente e si guarda bene dal recitare qualche pater, ave e gloria in un angolo in segno di espiazione. Come la politica. Magnati del petrolio, fondi finanziari, giganti dell’e-commerce, network televisivi spadroneggiano, manovrano il mercato, lo drogano. La SuperLega si farà, il calcio assomiglierà sempre più ad una play station per i ricchi. Teniamoci strette serate come quella appena vissuta. Da noi, più miseramente, i presidenti e i club continuano a spremere soldi dagli appassionati attraverso la tv, prima Sky, ora Dazn e Tim Vision, stritolando gli aficionados (non a caso fioriscono visioni clandestine, tv pirata, pezzotti).
Ma il peccato numero uno, il peccato mortale il calcio lo compie ogni volta che si innalza a Ente Supremo contra legem quando cioè si mette sopra ogni cosa contro Stati e popoli e pretende di essere esso stesso Stato con privilegi di extraterritorialità, senza norme e doveri da rispettare, reclamando carta bianca. Nessuna regola, come detta il neoliberismo. È quello che è avvenuto in questo campionato europeo dove Aleksander Ceferin, il presidente dell’Uefa, un velociraptor, ha imposto le sue leggi, infarcendo gli stadi di spettatori, fregandosene di pandemia e contagi, fino al divieto di colorare di arcobaleno l’Allianz Arena di Monaco: niente politica nel calcio ha tuonato, ipocrita. Lo stesso slogan che hanno ripetuto i nostri pilateschi dirigenti a proposito dell’inginocchiarsi dei calciatori azzurri nella battaglia del Black Lives Matter fino alla decisione ridicola di compiere quell’atto per solidarietà con i giocatori del Belgio.
Davvero singolare, questo nostro Paese, abituato da secoli a genuflettersi in una chiesa o davanti ad un uomo potente, ma che non ne vuole sapere di inginocchiarsi per una causa giusta. Io mi permetto di suggerire ai nostri campioni di fare altro: quando tra un po’ riprenderanno i campionati dalla Serie A in giù e negli stadi entrerà finalmente la gente (è un augurio che ciò possa avvenire), quando sentirete alzarsi certi cori contro i neri, contro gli ebrei, ma anche contro i napoletani o contro le vittime dell’Heysel, ecco, allora andate dai vostri tifosi e fateli smettere, fossero pure dieci o diecimila, minacciate di lasciare il campo, di non giocare, fottetevene delle disposizioni e delle eventuali squalifiche che arriveranno. Tanto nessun arbitro o funzionario della Questura fermerà quelle urla e interromperà le partite. Non occorre inginocchiarsi e alzare il pugno. Serve un po’ di coraggio.
Saremo così campioni d’Europa ancora migliori. Dopo paura e tanta solitudine, la pattuglia guidata da Mancini ha svolto un ruolo travolgente, ha rasserenato gli animi di molti, ne ha eccitato altri. Sono state settimane incredibili che hanno visto lo sport protagonista: quelli del basket che tornano ad una Olimpiade dopo 17 anni, Berrettini che fa il fenomeno a Wimbledon, Marcel Jacobs che si conferma tra i migliori velocisti al mondo a poche settimane da Tokyo. L’Italia dello sport più forte del virus, ha titolato un giorno Repubblica. Mancava solo che la Ferrari vincesse qualche gran premio (in verità possibilità remota, neanche a spingere quelle vetture…). Giornate propizie al punto che persino l’Istat si è messa a dare numeri in positivo fino ad azzardare un Pil in rialzo del 4,7 per cento per quest’anno.
Eppure qualche nube c’è nel cielo azzurro, azzurrissimo dei campioni d’Europa. Ma qui il calcio e lo sport non hanno colpe. Il racconto favorevole di queste settimane vincenti si interrompe. Perché quelle scene di brutalità e violenza dentro il carcere di Santa Maria Capua Vetere macchiano l’immagine di una comunità civile, rimandano a vent’anni fa, alla Diaz e a Bolzaneto. C’è un disegno di legge sui diritti che rischia di naufragare come è accaduto con altre norme di civiltà, con il Vaticano che entra a gamba tesa e nessun arbitro che tiri fuori il cartellino rosso ed espella i monsignori. Ci sono di nuovo licenziamenti di lavoratori appena il governo lo ha permesso, 150 prima e poi altri 422, fanno 572 disoccupati che non stanno certo festeggiando il titolo europeo. Non mancano, come sempre, un po’ di morti sul lavoro e quelli sfigati del trasporto merci, anzi della “logistica”, pretendono di avere dei diritti e si fanno picchiare e ammazzare. Per non parlare dei soliti barconi dall’Africa con i loro carichi di morte e disperazione.
Scusate, ma non avevate detto che, dopo il virus, nulla sarebbe stato come prima?