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I gialli relativi
Ci sono i morti letterari di Marcel Aymè (che non conquistano lettori); ci sono i morti immigrati di Michele Navarra e quelli alla Truman Capote raccontati da Nicola Lagioia. Tra il vero e il falso, il mondo contemporaneo è un grumo di violenza e dolore
Morte relativa. Surreali ma lucidi, fantastici ma possibili: ecco i racconti di Marcel Aymè (1902-1967), pubblicati dalla casa editrice L’orma col titolo Martin il romanziere (205 pagine., 16 euro). Cominciamo proprio da Martin, che ha il brutto vizio di far morire tutti i suoi personaggi. Questa circostanza, dettata forse da un’ossessione, non giova alle vendite: il lettore, a furia di leggere di decessi, si deprime. Martin ne discute col suo editore, insoddisfatto dei conti. Il narratore è testa dura e discute animatamente con lui sull’ultimo romanzo nel quale un uomo inizia una relazione amorosa, e incestuosa, con la suocera ottantenne. Alla fine vien trovata una soluzione: anticipare la parola fine laddove si parla di voluttà. Risultato: centinaia di migliaia di copie vendute.
Nel racconto La carta del tempo, compare un decreto governativo in base al quale, salvo eccezioni, tutti si vedono accorciata la durata di vita. Il giorno stabilito il malcapitato scompare, letteralmente. L’obiettivo sarebbe quello di ridurre la quantità degli “inutili”, prevedendo benefici economici e sociali. Dopo un po’ s’ingrossa il mercato nero delle tessere di vita. Risultati curiosi e anche esilaranti. Un intellettuale si innamora pazzamente di una donna, cui dà un appuntamento. Al giorno stabilito la donna, per via della morte relativa, non riconosce il corteggiatore. Una confusione tremenda per tutti. Alcuni si “risvegliano” in data improbabile, come il sessantesimo giorno di giugno. Le assenze, talvolta precedute da sedute orgiastiche, portano spessissimo all’adulterio. Un tale riprende vita in un letto: accanto c’è la moglie assieme all’amante di lei. L’autore annota: nessun turbamento. Poi cita le parole di un filosofo: «Ognuno vive miliardi di anni, ma di questo infinito la nostra coscienza recepisce soltanto brevi scorci intermittenti».
Periferia. Il romanzo giallo ha spesso un percorso giudiziario. Ci si può fidare dunque di un avvocato penalista. Nel caso specifico si tratta di Michele Navarra, autore de Nella tana del serpente (Fazi, collana Darkside, 311 pagine, 16 euro). Tra i desolanti palazzoni di Corviale (chiamato anche il Serpentone) alla periferia di Roma, vivacchia un piccolo commerciante (di abbigliamento), Elia Desideri. Questi, poco alla volta, dopo un avvio discreto della sua attività, imbocca il sentiero della sfortuna e dell’astio. Rimane vedovo. Poi s’inasprisce ulteriormente, sentendosi in qualche modo derubato perché a pochi passi dall’ingresso del suo negozio i profughi, in prevalenza siriani, depongono la loro merce. Elia considera quella presenza un insulto e/o una concorrenza sleale. Nel piazzale dilaga, giorno e notte, lo spaccio di stupefacenti. Consuetudine non solo romana ma anche, per esempio, lombarda o veneta. Il Desideri grida contro gli abusivi, li offende dicendo che sono “arabi di merda”. Poi un tragico fatto, dopo le offese lanciate al giovane Saverio, figlio di Elia. Viene trovato senza vita Nadir Bayazid, ragazzo di famiglia siriana. Stessa fine per il fratello Omar. Ovviamente l’esuberanza di Desideri gli si contorce contro, collocandolo tra i maggiori sospettati. Tutti guardano a lui come al colpevole. L’avvocato Gordiani indaga e spia in quell’ambiente marcio e ambivalente. Sempre a cavallo della sua Vespa bianca. La trama si infittisce. La guerra etnica si allarga e va a finire in un intreccio molto ambiguo e complicato. L’autore è bravo nel descrivere quel mondo, forte della sua attrezzatura giuridica, ma spesso – quando vuole descrivere più a fondo i derivati emotivi dei lutti – scivola in una non essenziale diagnosi psicologica, per giunta retorica. Un esempio: un maggiore dell’Arma dei Carabinieri «…fu poi assalito da una sensazione sorda e pulsante, un sentimento di rabbia soffocata, che lo catapultava all’interno di una sorta di universo sospeso, dove i suoi sensi si attutivano, si ovattavano per qualche secondo, in attesa di riesplodere con potenza nel momento immediatamente successivo, quello dell’inizio dell’indagine, della caccia al responsabile». Sicuramente al lettore basta udire le strazianti grida di dolore della madre delle due vittime.
Inumani. Per chi volesse entrare nelle pieghe di un assassinio, non inventato da un esperto di gialli, segnaliamo la minuziosa e appassionante ricostruzione fatta da Nicola Lagioia (barese del 1973), direttore del Salone del libro di Torino e conduttore e commentatore su Radio 3. La Cassazione ha chiuso il fascicolo, fitto di contraddizioni, che alla fine può essere letto come un manuale di inaudita ferocia… Lagioia, studiando le testimonianze e intervistando protagonisti e parenti, ha scritto un libro che assomiglia al più celebre A sangue freddo, dell’americano Truman Capote. I fatti e i misfatti si svolgono a Roma, in quella Roma che mostra unghie affilate, cattiveria allo stato puro e nessuna pietà da parte di giovani ben lontani dall’essere diventati adulti, una volta oltrepassato il limite della spavalderia e della più semplice pietà. S’intitola La citta dei vivi (Einaudi, 459 pagine, 22 euro). Un sabato di marzo, i carabinieri entrano nell’appartamento (al Collatino, periferia est della capitale) di un ragazzo romano, Manuel Foffo (28 anni), e trovano il corpo senza vita di un altro giovane, Luca Varani (23 anni, jugoslavo adottato da una famiglia italiana). Questi è stato torturato è ucciso e torturato in una notte di qualche giorno prima. Il Varani ha un coltello conficcato nel petto, e non solo. I carabinieri, dopo indagini accuratissime, scoprono che è implicato un altro ragazzo, Marco Prato. La vicenda si accaparra la prima pagina dei giornali, non solo quelli di Roma. C’entra, in grande quantità, la cocaina. Afferma Foffo:« Non so dire la quantità, so soltanto di aver speso 1500 euro». Non sono dei poveracci di strada i giovani (pare ce ne siano stati altri in quel festino). Il padre di Prato, per esempio, è un “manager culturale“ legato al ministero dei Beni Culturali. Lo scrittore Lagioia descrive meticolosamente la scena: muri imbrattati di sangue, cassetti spalancati, medicinali dappertutto. . Foffo lo aveva conosciuto poco prima di Capodanno. Diversi giornali riportano le parole di Foffo sulla loro frequentazione: «Marc è gay, io sono eterosessuale. Abbiamo avuto un rapporto e lui aveva un video, così ho temuto che potesse ricattarmi e ho continuato a vederlo». Un’altra dichiarazione choc: «Marco lo ha messo nel bicchiere di Luca. Mentre noi siamo rimasti vestiti, Luca si è denudato e ha bevuto quanto gli avevamo offerto, poi è andato in bagno e si è sentito male. Qui Marco lo ha aggredito, io ho recuperato il martello che abbiamo usato e forse sono stato io a trovare anche i due coltelli (…). Luca non è mai riuscito a resistere alle nostre violenze, ma posso precisare che non ha mai gridato. Mentre lo colpivamo non provavo piacere però non ero in grado di fermarmi anche se ho avuto dei momenti in cui provavo vergogna per quello che facevo. Lo abbiamo davvero torturato. Ricordo solo che la morte è sopravvenuta dopo molto tempo e Luca ha sofferto molto. Non ricordo quante coltellate aveva alla gola, è stato Marco che ha inferto la coltellata al cuore lasciando dentro il coltello, Luca era ancora vivo prima di quella coltellata». Storia di estremo degrado. Lagioia è un ottimo scrittore. C’è, forse un unico appunto da fargli: la Roma che descrive pare un’immensa suburra. Una città – e questo appare evidente – che non gli piace proprio. Il narratore insiste su fondali sporchi e paurosi, pur tenendo conto della sciatteria “non governata” dalla sindaca Virginia Raggi.