Monica Acito
A proposito di “Contro l'impegno"

Contro Walter Siti

Il pamphlet di Walter Siti che punta a "difendere la letteratura" dal chiacchiericcio dei social, dimentica che spesso il “silenzio” equivale al parlare troppo: in entrambi i casi il problema è guardare al di là delle proprie mani che applaudono

Nell’epoca dei social, in cui tutto viene discusso senza alcun filtro e senza essere sottoposto a nessun tipo di vaglio, anche la letteratura è diventata un cadavere su cui banchettare. E, come ogni cadavere, ci sono i più svariati tipi di avventori: come se si potesse ridurre la letteratura a un discorso, a una tendenza social su Instagram, da cui attingere ciò che serve a portare acqua al proprio mulino. Ogni tipo di avventore è legato alla sua idea personale, e ogni scintilla fa divampare incendi che sono fuori controllo: sulla fantomatica dittatura del politicamente corretto, i toni e le opinioni sono nette e tranchant.

Come sempre più spesso accade, si rischia di ridurre tutto a mera tifoseria da stadio: il dibattito è polarizzato, e ogni sfumatura che cerchi di analizzare la questione con senso critico viene messa al bando da una delle due controparti. Come un grande aspirapolvere, il dibattito risucchia tutto ciò che c’è nel mezzo. Nel suo pamphlet Contro l’impegno, “Riflessioni sul Bene in letteratura” (Rizzoli, 272 pagine, 14 Euro), Walter Siti fa bene a ricordarci che la letteratura non deve avere toni pedagogici o rassicuranti, ma deve piuttosto essere l’ascia di kafkiana memoria capace di spaccare quel mare gelato dentro di noi. E lo fa alternando Leopardi, Dante e anche i talk show di Mediaset, percorrendo quel crinale che separa cultura “alta” da cultura “bassa”. «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti» è il fulminante incipit di uno dei capitoli del libello di Siti, che difende la funzione della letteratura di svincolarsi dalla retorica.
Le parole di Siti ci ricordano una realtà che non possiamo ignorare; oggi i nuovi mass media dettano l’agenda culturale, a seconda dei vari argomenti che “tirano”: femminismo, critica all’utilizzo delle parole offensive, condanna del bodyshaming e del razzismo. Ma, ad analizzare meglio la realtà dei fatti, questo nuovo “attivismo” viene fomentato più che altro dalle figure degli influencer, nella maggior parte dei casi individui benestanti che, rinchiusi nella propria cameretta, dicono al proprio pubblico come essere più empatici, come parlare, che parole usare, quali cause sposare, incitando i follower a commentare e fare “Save” del post per incentivare l’algoritmo. Ogni causa diventa un “brand” e anche le stesse persone diventano “brand” ambulanti: ghettizzare e rendere la propria personalità netta, ben riconoscibile e dai confini precisi, è il modo migliore per acquisire visibilità e per potersi posizionare meglio in una società capitalistica in cui ogni frammento del sé viene cannibalizzato.

Se da un lato Walter Siti ci tiene a ricordarci i pericoli dell’“impegno”, ha però tralasciato il fenomeno opposto, che è da osservare e tenere in considerazione perché permea il tessuto sociale tanto quanto il primo.
“Buonismo” e “cattivismo” sono due maschere che perseguono lo stesso ideale, e sembrano essersi esaurite in un puro esercizio retorico di potere dialettico e sociale. Se da un lato abbiamo una narrazione di sé “buona” e melensa, dall’altro lato abbiamo il cinismo che nasconde la vergogna che si prova nel difendere dei privilegi che si sono conquistati senza sforzo e senza sofferenza (perché semplicemente calati dall’alto, alla nascita). Come se ogni tentativo nato per difendere il proprio status quo, non fosse nient’altro che un modo di espiare il senso di colpa di averlo ottenuto senza sacrifici, quello status quo.

Tutti e due i modelli mirano a fare una consolatio rivolta al proprio target, a fornirgli dei dogmi che si reggono su due modalità rituali precise: storyelling (narrazione) e storydoing (azione). La retorica cattivista ha gli stessi schemi di quella dell’“impegno”, e prova compiacenza nel difendere la possibilità di dire ciò che si vuole, trincerandosi dietro l’ormai abusato “ormai non si può dire più niente”. Un paradosso davvero curioso: in Italia quelli che si lamentano che “ormai non si può più dire niente”, sono gli stessi che poi lo fanno su tutti i mezzi disponibili: giornali, social, blog, tv, interviste e chi più ne ha più ne metta. Forse Siti non ha pensato che anche il contrario dell’“impegno” è un modo di guardarsi allo specchio e vedere soltanto le proprie mani che applaudono? Il cinismo (ancor più quello ostentato) ha paura della bontà perché non riesce a immedesimarsi in essa, e fabbrica i propri dogmi: la bontà è sempre falsa, chi è gentile può essere raggirato, la cattiveria è il germe della “genialità”. Presupposti morali di un homo homini lupus nemmeno tanto celato.

Dietro il cattivismo ci sono certamente sensi di colpa, paura e vergogna, timore di perdere i propri privilegi (conquistati senza sporcarsi troppo le mani) e voglia di rassicurare un pubblico, perché senza pubblico non si può giungere a quella visione di sé che, sotto sotto, si desidera quanto e più dei “buonisti”. Perché ciò che fa più paura è l’irrilevanza, lo scoprirsi formiche insignificanti che tentano di urlare in un megafono senza essere ascoltate da una platea.

Entrambi i modelli, alla fine, si ingarbugliano intorno alla stessa boria paternalistica e non aggiungono nulla: il libello di Siti potrebbe essere letto per quello che è, ossia un’opera che ci ricorda che scrivere letteratura non è da tutti e che smentisce che la letteratura debba essere rassicurante, ma potrebbe anche sortire l’effetto opposto, senz’altro più pericoloso: risvegliare gli animi sopiti (o forse no) di tanti autori che sono rimasti finora in un cantuccio e che vorranno posizionarsi in quell’alveo che associa cattivismo e intelligenza. Se non proprio genialità.

Tutti si affannano per trovare un lembo di terra identitaria in cui non solo riconoscersi, ma soprattutto specchiarsi. E se fosse proprio al di là di questo lembo di terra, il luogo necessario per fare silenzio e per guardare al di là delle proprie mani che applaudono?

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