Al Teatro Metastasio di Prato
Un altro Ottantanove
Frosini/Timpano con Marco Cavalcoli realizzano uno spettacolo che, partendo dalla Rivoluzione francese, racconta il nostro lento, ma costante adeguamento a una società che mescola le carte della storia e della realtà per mantenere in vita un unico valore: quello del capitalismo
La compagnia Frosini/ Timpano ha aperto la stagione teatrale del Fabbricone di Prato con uno spettacolo di grande suggestione: Ottantanove. Questa volta, apparentemente, affrontano il tema della rivoluzione francese del 1789, ma in pratica ci immergono nel nostro tempo e ci fanno percepire quanto siamo sbiaditi. Ci parlano anche del 1989 e della caduta del muro di Berlino. E come sempre scavano sui materiali con cui ricostruiamo la nostra storia mostrandoci come sia stato facile manipolarla.
Vestiti rigorosamente in bianco e nero, per i primi minuti rimangono davanti a noi in silenzio, uno di loro guarda anche lo schermo del suo telefonino, finché dalla platea Marco Cavalcoli (per la prima volta in scena con Elvira Frosini e Daniele Timpano) sbotta alzandosi e comincia a parlare a noi spettatori come se fosse lui stesso uno del pubblico. E ci racconta come oggi ormai viviamo in una società dove non vediamo veramente la realtà, anche se sembra che la guardiamo.
Questo personaggio ci parla con una piantina bonsai in mano, unico elemento di scenografia dello spettacolo a parte le tre enormi bandiere francesi ai lati del palcoscenico. Lui e gli altri, comunque, ci raccontano della Rivoluzione Francese come l’infanzia della nostra modernità, a cominciare dalla marsigliese come un vero e proprio plagio di un testo del vercellese Viotti che la scrisse nel 1781. Insomma, i tre giocano su una serie di scivolamenti spiazzanti che dissacrano tutte le retoriche, ci portano in più momenti a sorridere. Come quando tirano fuori una vecchia battuta: «I francesi sono tutti dei ladri? Non tutti ma Bonaparte». Oppure siamo avviluppati da frasi emblematiche come quella detta da Margaret Thatchernel 1987: «La société n’existe pas».
Questo emblematico spettacolo porta in scena, come ben ci ricorda Elvira Frosini, «l’assenza di una prospettiva reale di cambiamento. L’assenza reale dei nostri diritti, dei nostri principi, scritti nelle costituzioni, ma svuotati di senso reale». Quando è che siamo diventati archeologia? Guardiamo il mondo ma non ci entriamo dentro veramente. Siamo in una democrazia mummificata, imbalsamata. Ci ritroviamo a prendere l’aperitivo, a fare l’apericena e a parlare delle ingiustizie del mondo ma un po’ ci vergogniamo. Per un attimo vediamo il nemico ma poi ci confondiamo e forse ci convinciamo che non esiste il nemico. E ci sentiamo stonati e anacronistici.
Troppo impegnati a diffondere i post su instagram alla nostra cerchia. Ci sentiamo sempre inadeguati. Ci manca il tempo, ci mancano i minuti, le ore per accedere a questa sofisticata elegante intelligenza del nostro mondo neocapitalista. Sarà che poi si invecchia e si diventa conservatori e non si vuole più cambiare il mondo. A piccoli passi, a poco a poco, piano piano…. ci ripetono in coro.
In fondo, il teatro è falsità dicevano i rivoluzionari e perciò amavano la festa, scriveva Rousseau. Che preferiva la festa al teatro perché quest’ultimo, continuava, ha spettatori passivi. Perché il teatro è triste ed esclusivo, è inutile e pericoloso.
Eppure il memorabile film del 1966 di Peter Brook su Marat/Sade da un testo di Peter Weiss, che qui viene citato puntualmente, ci ricorda come Marat sia definitivamente seppellito dentro di noi e Sade sia l’emblema del nostro individualismo…
Noi siamo i parenti poveri della rivoluzione francese. Siamo intrisi di parole francesi nei nostri discorsi (qui ne viene fatto un divertente, interminabile elenco). In tutto questo caos comunicativo, Frosini/Timpano evidenziano implacabilmente il nostro essere definitivamente privi di un reale controllo delle informazioni. Troppo assorbiti dalle verità che ci inoculiamo con tutti i social possibili pensando di essere sempre più fighi.