Il Ceppo in tre parole /3
Racconto, mondo, parodia
Uno stile quello di Demetrio Marra, terzo finalista al Premio Ceppo Selezione Poesia Under 35, «tra lirico e prosastico, tra dialetto e gergo millennial». Che si riconosce in una Poesia non inscatolata, senza data di scadenza, mai obsoleta dopo la scoperta di nuovi materiali
Premio Ceppo Selezione Poesia Under 35, Demetrio Marra è uno dei tre finalisti al Premio Poesia Under 35 che il 25 giugno verranno votati dalla Giuria dei Giovani Lettori. Come scrive Andrea Sirotti nella motivazione, il poeta vince con Riproduzioni in scala (Interno Poesia, 2019) «per l’abile combinazione di linguaggi e registri in una dizione poetica brusca e personale. Uno stile che accoglie contaminazioni spurie tra parlata popolare e citazioni colte, tra lirico e prosastico, tra dialetto e gergo millennial» (www.iltempodelceppo.it).
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Racconto
Riproduzioni in scala è un racconto: il libro ha origine da un poemetto molto lungo, di oltre quattrocento versi, dal titolo Tautoromanzo. Si trattava di una sorta di “autofiction”: raccontava con toni epici e satirici al contempo i miei ultimi anni universitari. Chi non vorrebbe, dopotutto, «abbassare al livello della strada»la propria scuola o università, per citare un grande poeta, Massimo Ferretti? Questi propositi dinamitardi, metaforicamente parlando, mi servivano da cominciamento, e infatti il libro mi si palesò, davvero, quando cominciai a smembrare il Tautoromanzo, a eliminarne la maggior parte. I testi numerati da I a VIII, più il testo finale, lunghissimo, La città sostituita, sono i resti di questo processo autodistruttivo. Mi serviva il racconto, il concetto di racconto: non la vicenda, piuttosto la sua frammentarietà, la sua intermittenza. La poesia non è scollegata “dal” mondo, è “nel” mondo, desidera o non può fare a meno di serializzarlo. A differenza del romanzo, però, può fare a meno di restituirlo coerentemente, può dargli lo spazio che naturalmente si prenderebbe. L’assenza di legami, di collegamenti, è ammessa. Mi piace dire che questa poesia è la mia forma di rinuncia al romanzo. Ma no: forse è la mia idea di romanzo, perché raccontare un’unità, attraverso una struttura, con dei personaggi verosimili, mi è impossibile se tutto ciò che ci circonda è aporia. In Lo svincolo di San Leo, nella sezione Fatti diversi (dal francese: “fatti di cronaca”) scrivo: «raccontare è un’azione, esatta / -mente come», chiudendo con una reticenza, un’assenza testuale che è il mutismo del poeta di fronte a un Mondo che sembra completamente silenzioso. In realtà è ottuso, disinteressato, esiste indipendente da noi, al massimo ci ripete. La tmesi – cioè la rottura di una parola in fine verso – serve a sottolineare l’ossimoro: raccontare non è un’azione esatta. In un altro testo senza titolo scrivo che «raccontare una storia non serve a niente», perché il punto è che la poesia, in questa mia impossibile equivalenza col romanzo, è davvero inutile, per fortuna: sta in questa inutilità la sua sopravvivenza. Non è inscatolata, non ha data di scadenza, non diventa obsoleta dopo la scoperta di nuovi materiali.
Mondo
Raccontare il mondo è ciò che ognuno di noi fa in ogni momento, perché la mente struttura, attraverso i sensi, l’esperienza (anche i ricordi, anche i sogni) in narrazione. Riproduzioni in scala, se orizzontalmente si spende nel racconto, verticalmente si spende nel disegno. In architettura o in ingegneria, le riproduzioni in scala sono modellizzazioni del mondo, sono la base della cartografia. Fare una scala di qualcosa è come condividere i principi dell’inquadratura cinematografica: “inquadrare” significa disegnare una cornice all’interno di un’immagine per delimitarla. Vuol dire dare significato a ciò che ne viene racchiuso e, allo stesso modo, a ciò che viene lasciato fuori. È il fondamento di tantissima Arte, dalle origini. La riproduzione in scala, l’inquadratura, la cornice, il quadro: lo specchio. In qualche modo, i principi di riflessione della luce mi sembravano dare una summa di tutte queste azioni. Soprattutto se la superficie riflettente, questo specchio, distorce, deforma per sua natura, dà una sola delle rappresentazioni della realtà. Infatti ciò che è illuminato, quindi riflesso, rientra in uno spettro elettromagnetico: il “visibile” dell’occhio umano. Si tratta di un fantasma, che allude invece a tutto un invisibile potenzialmente infinito: «Non giudicatemi da ciò che sono ma / da questo vetro che mi ripete», dico in “Olvidarás al otro que dejaste”. Vale a dire, ciò che sono (io? il mio io lirico? il lettore che si immedesima?) non è conoscibile, c’è soltanto questa mia immagine riflessa, contenuta. La necessità di un “contenimento” di me, della mia esperienza, dell’esperienza mia del mondo, è poi la questione della sopravvivenza.
Parodia
Il concetto di parodia è per me fondamentale come strategia retorica del sollevamento, del ribaltamento, del riportare in superficie le tensioni storiche sempre attuali. In qualche modo somma le due precedenti parole perché è, etimologicamente, “contro-canto” e “canto a lato”, quindi la forma più antica di racconto. E anche perché presuppone sempre un discorso precedente: nel mio caso, un sistema-mondo che è un sistema di significati, un universo assente, di cui è ripresa soltanto una parte. In Mitologie, nella seconda sezione, ammetto mio malgrado di non finire i libri. Con questa negazione rilascio buona parte dei miei “modelli”: guardare a chi, prima di me, ha scritto, ha passato diverse e identiche tribolazioni è vitale. È quello che per Luigi Di Ruscio è il tornio o il bullone, da poeta operaio emigrato prestissimo in Finlandia, solo a parlare l’italiano tra centinaia di persone; per Ferretti è il suo cuore stesso, vista la cardiopatia, ragione della sua vita e della sua morte («Cuore che vinci e mi costringi a dire […]»); per Ottiero Ottieri è la sua nevrosi, dal sentimento di irrealtà all’alcolismo. Per me sono stati loro i miei punti di riferimento, studiandoli nel mio percorso di laurea in Filologia Moderna; e insieme è stato il contesto di studio, l’ambiente di questo “essere”studente che è l’università e la città: Pavia, nel mio caso. La vita che lamento nel libro è altamente filtrata, schermata: indosso una cotta di maglia! Ma ciò non vuol dire che io non provassi il dolore di cui parlo: è che lo “processavo” narrativamente attraverso il loro sguardo, lo sguardo di chi prima di me ha vissuto e quindi sofferto, e quindi raccontato.
(Nell’immagine vicino al titolo: Raffaello, “Allegoria della poesia”, particolare, volta della Stanza della Segnatura; nel testo, Demetrio Marra)