Arturo Belluardo
Piccole memorie pubbliche

Ci vuole Pazienza

«Quando comprai “Perché Pippo sembra uno sballato”, la raccolta di tavole di Andrea Pazienza, le occhiate di blazer dei miei compagni di facoltà me lo facevano nascondere dietro la giacca doppiopetto, l’unica che avevo per fare gli esami, estate e inverno...»

In principio fu un gavettone.

Un palloncino giallo, vescica di maiale, che mi prese al centro delle scapole, T2-T3, davanti all’edicola verde piombo con la copia de Il Male ancora in mano.

Un palloncino giallo lanciato in parabola perfetta da Cesare Quercioli Dessena dalla cima di uno sgarrupo lastricato di Gradara, gita scolastica 1978 del quinto ginnasio del Liceo Classico Tommaso Gargallo di Siracusa.

Un palloncino giallo che non scoppiò e mi squadernò sui gradoni grigi, faccia spalmata su una foto di Aldo Moro in camicia e barba non fatte e il fumetto: “Scusate abitualmente vesto Marzotto”.

Aldo Moro lo avevano rapito le Brigate Rosse e per questo in gita non ci saremmo dovuti andare, che sembrava che l’Italia dovesse esplodere da un momento all’altro: in verità, nella mia piccola città siciliana, scoppiavano solo parole, rimbrotti e brufoli. La visione dei fatti era sempre sghemba, addormentata, avvolta in un sudario di scirocco o lastricata di maestrale. Rutti di destra, rutti di sinistra, qualche cazzotto, molte canne e, per pochi intimi, Il Male e Frigidaire.

Cannibale nelle nostre edicole non arrivava, troppo alternativo; Frigidaire, invece, andava a ruba da quando aveva pubblicato un reportage sulle orge della provincia iblea con protagonisti Mario Bianca, il rosticciere punk di viale Teocrito, e il dj Giulio LaFerla, rockstar dell’etere privato, che aveva rivelato la sua predilezione per i travestiti.

Quelle riviste erano fatte di vetriolo. Vetriolo e piombo. E mescalina, marocchino, pakistano nero con l’ombrello. Eroina. Vignette acide, muscoli gonfi di Ranxerox, omini disegnati male da Vincino, suore scozzariate. Quelle riviste trasudavano movimento e P38, autonomia e rivoluzione e la parola segreta che sorgeva impronunciabile nel futuro di noi liceali: DAMS di Bologna. Bologna di Dalla e Guccini, da appostamenti estivi a via Paolo Fabbri 43, mentre Francesco se ne stava sdraiato al fresco di Pavana e noi incollati all’asfalto d’agosto emiliano ad aspettare il suo rientro a casa. Bologna, sogno e miraggio di sesso a portata di pene.

Di quando, in una seduta di autocoscienza in piazza Adda, noi masculazzi ci domandavamo chi di noi l’avesse fatto. Io e Aldo Modica eravamo ancora vergini, Salvo Salerno con la sua zita si era limitato a stricate superficiali. “Io, io l’ho fatto” aveva detto Calafiore, basso e ponchio, una vera arancina coi piedi. “Tu? E quando e con chi?”. E Calafiore: “Una volta, con una di Bologna”.

Quelle riviste. Quelle riviste circolavano quasi clandestinamente, le compravamo solo dal giornalaio della stazione, che era lo stesso che aveva il cineclub La moviola a viale Teocrito, dove io passavo tutti i pomeriggi con un vassoio di arancine comprate alla rosticceria di Mario Bianca. Insomma uno di cui ci si poteva fidare e che stava muto.

Che leggere Il Male mica si poteva, quelli erano spietati, facevano Andreotti con la gobba a forma di culo, irridevano La Malfa morto. Era solo una tartaruga. E il sangue d’inchiostro sul potere, il potere democristiano, il potere incistato dalla P2, il polpo oscuro che succhiava teste e gerarchie di generali, ammiragli, finanzieri, prelati e cardinali.

Il Male, che quando lo avevo ordinato al giornalaio Panebianco, quello lo aveva mostrato a mio padre: “Taliasse, taliasse che s’accatta so figghiu!”. Mio padre lo sapeva che Panebianco era fascista e aveva lasciato stare.

Poi ci fu la storia di Pippo.

Pippo era il mio personaggio dei fumetti preferito, assieme a Peter Parker. Era surreale, improbabile, geniale e affettuoso. Con le mie paghette conservate con cura, mi ero comprato il volumone bianco Mondadori Io Pippo e non consentivo a nessuno di toccarlo. Ma mio fratello piccolo di nascosto se lo andava a vedere, e di nascosto si andava a impicciare di tutte le cose mie. E mia madre era accorsa sentendolo piangere e urlare, tirarsi giù mutande e pantaloni corti. “E che mi diventa così? Così come a Pippo?” e strizzarsi a consunzione il cappuccetto del pipino, quasi a infliggersi un’autocirconcisione. Su una pagina de Il Male troneggiava una tavola di Andrea Pazienza con Pippo con una canna in mano, la siringa stillante nella tasca dei pantaloni e un pisello nero e lungo che gli penzolava fuori dalla bottega aperta. Un pisello a forma di Pippo.

E mia madre mi aveva stracciato Il Male davanti gridandomi “Pornografico!” e mio padre mi aveva catafottuto a legnate.

Insomma Andrea Pazienza era stato il gavettone che mi aveva atterrato, steso al suolo, Andrea Pazienza avrebbe dato l’innesco e tutto sarebbe deflagrato. Scoppiava finalmente la rivolta oppure in qualche modo mi ero rotto. Ma il palloncino non era esploso, era rimasto integro e pesante. Aldo Moro era morto, falciato da una mitraglietta Skorpion e le Brigate Rosse non erano più quei simpatici buontemponi che avevano come capo Ugo Tognazzi. Si era rotto tutto, il PCI non aveva fatto la rivoluzione, aveva sostenuto al governo il più schifoso di tutti, quell’Andreotti ammiscatu con i peggiori malacarne di tutta la Sicilia, che quando veniva a fare i comizi al cinema Vasquez c’era la fila di mafiosi fino a casa mia. Andreotti che era il capo segreto della P2, che lo sapevamo tutti e nessuno lo poteva dire.

Il gavettone era stato il principio, ma il principio della fine e io, noi non ce n’eravamo accorti. Di discussioni, caroselli, eroi, quel ch’è rimasto dimmelo un po’ tu. Il tempo scorreva sempre lento, a ritmo di scirocco, nella nostra piccola provincia, bastardo posto, fuori dalle fabbriche e fuori dal caldo degli autunni. E tutto era colla, colla che si spandeva lentamente, fuori dai confini delle Mura Dionigiane, fuori dallo Stretto di Messina, risaliva Sila e Sangro, un Gattopardo che strisciava lungo gli Appennini inghiottendo cambiamenti e speranze, lasciandosi dietro il deserto. Moriva un Papa, anzi due. Finiva il liceo, Craxi si lucidava il testone e faceva prove da duce.

Tramontava rosso fuoco alla foce del Ciane il DAMS illuminato di neon, per lasciare il posto a un’università privata, posto sicuro per avere un posto sicuro “che noi santi in Paradiso non ne abbiamo!”. Altro che lettere, economia. E per compagni di corso, tutti i figli segreti dell’elenco di Licio Gelli, piduisti oscuri rimasti in silenzio, nascosti tra le dune del deserto, figli delegati massoni di massoni conclamati, futura classe dirigente forgiata tra i banchi del riflusso, con i brindisi Ramazzotti della Milano da bere. E la cocaina. Tanta cocaina.

Quando comprai Perché Pippo sembra uno sballato, la raccolta di tavole di Andrea Pazienza, le occhiate di blazer dei miei compagni di facoltà me lo facevano nascondere dietro la giacca doppiopetto, l’unica che avevo per fare gli esami, estate e inverno. Era il 1983 e mi sembrava che Pazienza raccontasse già un altro mondo, che fosse già fuori tempo massimo, tempo scaduto, campana del ring suonata dopo il countdown che mi aveva messo a terra.

Le storie di Andrea erano piene di sballati alla ricerca di fumo, di funghi. E di deserti alla Zabriskie Point, animati da cactus e da Prixicell. Da Topolini fascistissimi. E dove tutti parlavano uno strano linguaggio. Era, avrei scoperto, quell’abruzzese bastardo, masticato di pugliese, quel dialetto strascicato e adriatico che colorava di ineluttabile provincia il Deserto Rosso.

Non era la fine, era l’inizio. La provincia, il Gattopardo mostruoso aveva vinto, il niente era rimasto niente. E il cane Bendicò impagliato veniva buttato in discarica con il resto di niente.

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