Danilo Maestosi
A Roma, a Palazzo Braschi

Un’altra Roma

Una grande, bella mostra ripercorre la nascita della Capitale e della sua vocazione metropolitana. Dai dipinti di Michele Cammarano che inventano il mito di Porta Pia alle splendide foto di Giovanni Primoli che raccontano il miscuglio unico di plebe e aristocrazia, fino alla rivoluzione urbanistica di Ernesto Nathan

Mi lascio alle spalle palazzo Braschi e la mostra Roma. Nascita di una capitale. 1870-1915 – costruita con rigore e grande impegno produttivo per la ricorrenza dei 150 anni – con la certezza di aver assistito a un evento davvero imperdibile, per chi abita questa città e si misura con il suo futuro. Qualunque sia la sua età. E da qualunque postazione l’osservi, anche quella delle periferie più lontane e marginalizzate. Figuriamoci se il punto di partenza o l’ambizione di arrivo è la cabina di comando del Campidoglio.

Già, le elezioni comunali alle porte. Ai candidati più che il filtro delle primarie suggerirei come esame politico e di coscienza una visita attenta a questa esposizione. Non foss’altro per ricordarsi che Roma è e nasce capitale d’Italia molto prima di diventarlo; e la forza d’attrazione di questa sua identità, da riscoprire e da rilanciare, è un collante indispensabile per tenere insieme i suoi dilatati confini. La vitalità e lo scontento dei suoi territori.

Lo aveva capito bene Camillo Benso conte di Cavour, uomo del Nord e uno dei padri fondatori dell’Italia degli italiani, che nel 1861, un anno dopo l’unificazione sotto il regno dei Savoia, proclamava: «In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali».

L’ultimo guanto di sfida del Risorgimento era lanciato. Dieci anni dopo, la conquista sigillata dalla breccia di Porta Pia. L’avvenimento con cui inizia la mostra. Nella sala d’ingresso una serie di quadri d’epoca esaltano l’impresa. Polvere, sangue, le piume dei bersaglieri, uno spasmodico fronteggiarsi di fucilerie, corpi che cadono, altri che continuano la rincorsa. Un’epopea che ha i contorni di una fake new: oggi sappiamo che pochi furono i caduti sul campo, scarsa la resistenza. Una montatura da reportage a effetto anche quella breccia scelta non a caso contro il fondale di una porta maestosa, disegnata da Michelangelo. Lo squarcio fu praticato cinquanta metri più in là: ci informa una foto in bianco e nero giustamente esposta lì accanto.

I bersaglieri di Michele Camnmarano

Poco importa. L’enfasi che stordì Michele Cammarano e gli altri colleghi pittori ingaggiati per l’occasione sembra un’ebrezza di rivalsa: racconta venti e passa anni dopo altre più eroiche battaglie, quelle dei garibaldini e dei patrioti caduti nella vana difesa della Repubblica Romana e delle sue avanzatissime utopie di governo. Ne rinnovarono fino alla Grande Guerra il ricordo le camice rosse che tornavano a Roma a far festa e strappare applausi ogni anno: scene scolpite da un quadro di Umberto Coronaldi, datato 1898, inserito lungo il percorso.

Dietro, la stessa ingenua fuga d’immaginario che rischia di trasformare in una confessione di broglio un quadro di Luigi Riva, in vista poco più in là, a celebrare il referendum popolare di ottobre che sancì l’annessione della città: una giovinetta in costume da popolana che esibisce la scheda con il suo «Sì» ad un busto di Vittorio Emanuele II.

Ogni grande svolta della storia si nutre di miti. Li manipola, li camuffa e li ammanta di verità. Quello della presa di Porta Pia resta così ancorato al copione inscalfibile di un eccezionale evento bellico. Come confermano le immagini di un film inizio Novecento che scorrono su un video: una gettonatissima pellicola prodotta da Filoteo Alberini, pioniere e padre fondatore del cinema italiano, che nella neonata capitale diventata bambina, fu tra i primi a far concorrenza agli inventori francesi delle riprese in movimento e del muto.

Davvero piccola, stando a una mappa del tempo in vetrina, la città espugnata al potere secolare dei papi e di quell’ultimo ostinato pontefice Pio IX che asserragliato in Vaticano continuò a manifestare la sua ostilità. Duecentomila abitanti contenuti in uno spazio che includeva le mura Aureliane e una lunga ansa del Tevere. Di qui il vuoto verde delle ville nobiliari che costellavano il recinto urbano, di là quello della campagna romana. ”Er deserto”, come l’aveva battezzato il Belli. Ma era un deserto popolato di poveri braccianti pendolari che rifornivano la città. Un via vai di carri, greggi al ritorno dal pascolo o portate verso il macello che tagliavano la spianata dei Fori, contadine cariche come muli di sacchi, o accasciate sulle scalinate del centro, a riposarsi o a mendicare, di cui il conte Giovanni Primoli – (1851-1927), una lussuosa dimora a Parigi e una a Roma, il sangue di Napoleone nelle vene, una passione per l’arte della fotografia di cui divenne perfezionatore e maestro, sua la foto accanto al titolo – ci trasmette in mostra con i suoi smaglianti bianchi e neri, una stupefacente testimonianza. Il ritratto non addomesticato di una città che all’indomani di Porta Pia è ancora un mosaico inestricabile e vivacissimo dove i corpi e i volti di aristocratici e plebei, classi colte e folle ignoranti si intrecciano sulla stessa scena. E non solo per quelle stridenti incursioni giornaliere di «miserabili» dai campi paludosi fuori porta. Anche nei vecchi rioni ricchi e poveri vivono ancora quasi fianco a fianco, le distanze mantenute da regole invalicabili e sfuggenti. E anche da queste realtà l’obiettivo di Primoli distilla e cattura schegge di cronaca indimenticabili.

Foto di Giovanni Primoli

Ma non si ferma qui il conte fotografo. Continuerà a scrivere con i suoi scatti – che giustamente le tre curatrici, Flavia Pesci, Federica Pirani e Gloria, Raimondi hanno incluso in ogni capitolo – il diario della città che cambia in tutti i suoi aspetti. Nel bene e nel male. Tra corse in avanti, pause, ripiegamenti, sconfitte.

Indispensabili, certo, le carte, i documenti, le mappe dei piani regolatori, tra cui anche l’originale varato dalla giunta Nathan, i plastici che si succedono, le didascalie riassuntive, i materiali sgranati lungo il percorso per farci comprendere come e quando la nuova Roma sia riuscita a colmare quei vuoti di un corpo urbano, fascinoso e ricco di folklore, ma avvizzito su se stesso, che la separavano dagli standard di altri paesi europei.

Un sipario dopo l’altro ci raccontano la costruzione tumultuosa nell’arco di poche decine di anni di ministeri, interi quartieri per la manodopera e gli imprenditori di turismo e commercio attirati da tutt’Italia, monumenti celebrativi, ponti e teatri, strutture direzionali e di svago. Ci spiegano e ci fanno intuire i giochi di potere, le forze in campo, gli intrighi speculativi. E ancora i danni irreparabili degli sventramenti operati nel cuore del centro: l’ampliamento di Corso Vittorio, la risistemazione a colpi di piccone di piazza Venezia per far posto al Vittoriano. Lo scempio della lottizzazione di villa Ludovisi.

Temi che possono ridestare con la curiosità la voglia di studi e approfondimenti. Ma nulla che possa raggiungerci più a fondo come le foto. Perché le foto parlano alla mente e al cuore, trattengono voci di vite vissute all’istante. Specie quelle di Giovanni Primoli.

Foto di Giovanni Primoli

Impressionante la sequenza sullo straripamento del Tevere: il Pantheon, il Corso, piazza del Popolo ridotti a stagni. Immagini che spianano la strada al fiume imbavagliato dai Muraglioni e a una coda infinita di rimpianti per un altro pezzo di Roma sparito per sempre. Commoventi i flash sulla città di tutti i giorni. La gente a spasso, a teatro, nei bar, gli ultimi guizzi di trasgressione del carnevale con un gruppo di manifestanti che mettono alla berlina medici e infermieri che si arricchiscono alle loro spalle, i volti dei bambini, ricchi e poveri, che il conte inquadra inchinato, quasi omaggiasse la loro innocenza. E poi i salotti degli intellettuali e dell’aristocrazia.

Di uno di questi cenacoli, quello che ruotava attorno a Cena e alla Aleramo, un prezioso siparietto evoca la sincera spinta egualitaria e gli interventi per denunciare e migliorare le tremende condizioni di miseria e salute della gente dell’Agro pontino: la costruzione della prima scuola in muratura, di cui restano a ricordo gli splendidi pannelli dipinti da Duilio Cambellotti. Prove di un socialismo che comincia a prendere piede in modo più consistente con le lotte sindacali, la nascita della prima Casa dei lavoratori dietro al Colosseo, l’uscita di un proprio quotidiano: l’Avanti!. La Classe operaia che prova ad andare in Paradiso: in un manifesto d’epoca l’Eden è un’isola su cui svetta come un sole nascente una cupola, il socialismo due braccianti che remano controcorrente.

I manifesti: altra chicca, altro serbatoio di sogno e d’immaginario che questa mostra esplora ed esibisce. Un campionario straordinario che può essere rivisitato e meglio apprezzato se – accogliendo un suggerimento in catalogo di Maria Vittoria Marini Clarelli – cambiamo punto di vista e proviamo ad assumere di fronte ai 600 cimeli in esposizione lo sguardo fervido e non smaliziato di un giovane di allora, che cresce insieme alla Roma che cresce. Se ci immedesimiamo in una voglia di vivere che vede desideri e fantasie specchiarsi in quelle promesse di ricchezza, felicità, salute, svago, erotismo a portata di mano che gli strizzano l’occhio dai muri del centro. Una sbronza di Belle Époque che precipiterà anche la nuova capitale come tutta l’Europa nell’abisso rovinoso della Grande Guerra. Baratro che interventisti di vari fronti saluteranno come una via di riscossa. E Giacomo Balla, capofila dei futuristi, dipingerà a colori sgargianti e vortici di segni dinamici come la profezia di un nuovo mondo.

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