Periscopio (globale)
Per Wolfgang Borchert
Morto giovanissimo nel 1947, Wolfgang Borchert rappresenta un caso quasi unico nella letteratura tedesca. Avverso al nazismo, deve la sua fortuna a un solo testo teatrale e a varie raccolte di racconti. Ma ha aggiornato la tradizione dell'espressionismo
È più di un anno, ormai, che di tanto in tanto qualcuno, a corto di fantasia, pensa bene di paragonare la pandemia a un conflitto bellico, e in particolare alla Seconda guerra mondiale. Mi è tornata in mente, questa comparazione, mentre rileggevo e riflettevo sull’opera di uno scrittore tedesco morto giovanissimo nel 1947 e da noi quasi del tutto sconosciuto. Uno scrittore che, per evidenti ragioni biografiche, non può esimersi dal dedicare alla guerra, e soprattutto alle restrizioni e alla miseria che ne sono derivate, tutta la sua opera. E la conclusione, ancora una volta, è che tra le due realtà sono molto maggiori le differenze delle analogie. A parte, però, una sensazione, che risulta invece comune: come nel racconto Die Küchenuhr (L’orologio in cucina), in cui il protagonista, guardando appunto l’orologio in cucina, fermo alle due e mezza, si rende conto che l’ora che lo stesso segnava prima della guerra, e dell’inizio della fine di tutto, era il simbolo di una normalità che ormai non esiste più – o anzi, come scrive Borchert, del paradiso.
Celebriamolo dunque nel centenario della nascita, partendo proprio dalla scarna ma interessante biografia: Wolfgang Borchert nasce ad Amburgo il 20 maggio 1921, figlio di un insegnante e di una scrittrice di racconti piuttosto conosciuta a livello locale. Pur mostrando una precocissima inclinazione poetica, viene avviato dalla famiglia a una “Kaufmannslehre”, un tirocinio commerciale, sia pure nell’ambito dei libri. Il concetto di “Kaufmann”, che in Germania è rimasto in gran parte inalterato fino a oggi, merita forse una breve spiegazione. Si tratta di una sorta di formazione teorico-pratica, il cui obiettivo è di fornire al candidato le conoscenze tecnico-amministrative più ampie possibili in un dato settore. Non si tratta quindi solo, se prendiamo il caso di Borchert, di imparare a vendere libri, ma di conoscere i meccanismi dell’intero settore, dal funzionamento delle tipografie alla curatela del libro, dalla promozione e distribuzione agli aspetti di commercializzazione fino ad arrivare alle tecniche di vendita vera e propria. Quanto a Borchert, segue obbediente il suo corso e si diploma, ma al tempo stesso decide d’iscriversi a un corso di recitazione, la vera passione della sua vita.
Concluso il tirocinio alla fine del 1940, all’inizio dell’anno successivo ottiene delle particine in un teatro di Lüneburg, ma già nel mese di luglio è arruolato e in novembre trasferito al fronte russo, nella zona dell’odierna Kaliningrad. Colpito da itterizia, finisce in un lazzaretto; perde un dito della mano sinistra e nel maggio 1942 viene processato con l’accusa di essersi arrecato la ferita volontariamente per lasciare il fronte. Sebbene il pubblico ministero ne chieda la condanna a morte, in agosto viene completamente scagionato. Ma sarà solo l’inizio di una frequentazione piuttosto assidua dei tribunali, seppur per altri motivi. Resta infatti in carcere, ma stavolta con un altro capo d’imputazione, l’essersi espresso verbalmente e per iscritto “contro lo Stato e il Partito”. Non era, del resto, la prima volta. Nel 1939 la commediola Käse, Formaggio, in cui si faceva beffe di Hitler, per pura fortuna non era finita in mano alla polizia politica, anche se era stato così ingenuo da mandarla in giro. In particolare, l’aveva fatta pervenire al più noto attore tedesco, Gustaf Gründgens, il Mephisto, per intenderci, dell’omonimo romanzo di Klaus Mann, di cui lo aveva entusiasmato due anni prima l’interpretazione di Amleto. Stavolta, Borchert è condannato a sei settimane di reclusione, scontate le quali si ritrova nuovamente al fronte, dove l’itterizia si aggrava e rimedia anche la febbre petecchiale. Dall’inizio del 1943 è trasferito in vari lazzaretti. Tornato per un breve periodo ad Amburgo, grazie a un miglioramento temporaneo delle sue condizioni riesce a partecipare nuovamente all’attività teatrale, prima nella sua città, poi a Jena e Kassel. Quando sta per essere esonerato definitivamente dal servizio militare per ragioni di salute, viene denunciato per aver raccontato ai camerati delle barzellette satiriche su Goebbels, basate sulla zoppia del gerarca e sul motto “le bugie hanno le gambe corte”, e trasferito al carcere di Berlino-Moabit, dove resterà intanto cinque mesi in attesa di giudizio e dovrà poi scontarne altri quattro dopo la puntuale condanna.
Rispedito per ritorsione a combattere il nemico (quello esterno, naturalmente, non i nazisti che lo perseguitano), nella primavera del 1945 Borchert viene fatto prigioniero con tutta la sua unità dai francesi nei pressi di Francoforte, ma riesce a fuggire e a percorrere a piedi, malgrado le sue condizioni fisiche, 600 chilometri per raggiungere di nuovo Amburgo. Dopo alcuni mesi di riposo quasi forzato, mentre il Terzo Reich collassa, riprende a collaborare con alcune compagnie teatrali, fondandone una, organizzando spettacoli di cabaret, recitando e facendo l’assistente di regia. Questo momento di grazia gli durerà poco: già alla fine dell’anno un riacutizzarsi dell’itterizia lo costringerà a letto, dove si dedicherà dapprima alla stesura di diverse decine di racconti e di una raccolta di poesie, poi, e soprattutto, del suo testo principale, il dramma Draußen vor der Tür (Fuori, davanti alla porta). Scritto nel gennaio del 1947 in appena otto giorni sotto forma di radiodramma, è trasmesso il 13 febbraio e ottiene uno straordinario successo. Nel mese di aprile esce un primo libro di prose, cui se ne aggiungeranno molte altre alle quali Borchert lavorerà durante l’estate. Al contempo, rielabora il suo radiodramma per il teatro. Alla fine di settembre viene trasferito per cure a Basilea, dove morirà in ospedale il 20 novembre, alla vigilia della prima rappresentazione del suo dramma ad Amburgo e pochi giorni prima della pubblicazione del suo secondo volume di racconti.
Di grande popolarità nell’immediato dopoguerra, Borchert andrà incontro a giudizi critici più severi negli anni Settanta quando, non del tutto a torto, gli verrà rimproverato di essere stato un tardo epigono dell’espressionismo teatrale tedesco – da Sternheim a Toller, il cui Hinkemann è un riferimento, per temi trattati e linguaggio, fin troppo facile; pur senza tralasciare naturalmente l’influenza del Woyzeck di Büchner –, con gradi di originalità e novità espressiva giudicati diversamente dai vari recensori. Oggi è forse il momento di una valutazione più equilibrata, che ne metta in luce i limiti ma al tempo stesso saluti l’impegno, la vitalità e il coraggio di un ragazzo di ventisei anni che non poteva ancora aver raggiunto la maturità espressiva. Sta di fatto che Draußen vor der Tür sarà più volte ripreso negli anni dalle maggiori compagnie teatrali, anche perché si tratta di un testo che mette in scena, abilmente e con sincero pathos, l’eterno dramma del reduce che non ritrova, al suo ritorno, il mondo di prima. Scritto in un tedesco colloquiale, con l’inserimento di termini dialettali e del parlare comune, senza particolari finezze espressive, il testo è contrassegnato da un andamento paratattico, da interiezioni e ripetizioni che imprimono un ritmo infernale all’infelice peregrinare del protagonista, il soldato Beckmann. I personaggi che via via incontra zoppicando (perché ferito al ginocchio) e con cui ingaggia dialoghi lapidari e talora ai limiti del surreale e del grottesco – l’impresario delle pompe funebri, che è poi la morte, Dio, il fiume Elba che non gli concede nemmeno il suicidio, la ragazza, l’uomo con una gamba sola, il caporale che nega qualunque responsabilità, lo spazzino, il direttore del cabaret che non lo vuole nella sua troupe, eccetera − sono tutti ostacoli e fonti di delusione, sfaccettature di un’integrazione impossibile. L’unico posto che gli resta, in una Amburgo peraltro semidistrutta dalle bombe, è appunto fuori, davanti alla porta; in altri termini, è messo alla porta proprio da quella società civile che al combattente e al reduce deve, almeno fino a un certo punto, la propria sopravvivenza. Racconta, Beckmann, di essere tornato a casa e di essere stato apostrofato dalla moglie, che nel frattempo lo ha sostituito, con il suo cognome: “Beckmann, mi ha detto. Semplicemente Beckmann. Ed ero stato via tre anni. Beckmann, mi ha detto, così come si dice tavolo a un tavolo. Mobile Beckmann. Mettilo da una parte, il mobile Beckmann. Vedi, è per questo che non ho più un nome di battesimo, mi capisci.” Questa scena, una delle più dolenti del dramma, testimonia dell’impraticabilità di un reinserimento nella nuova società di soldati che non hanno ancora smaltito, e forse non smaltiranno mai, le brutture e le violenze a cui hanno assistito e che in parte hanno sicuramente anche perpetrato. La paura di vivere, l’incapacità di restaurare la propria identità, la speranza nel futuro corrosa dall’incertezza di tempi così difficili – tutti questi elementi compaiono, diversamente declinati, nell’intera opera di Borchert.
Anche i suoi racconti, alcuni dei quali brevissimi ma intensi bozzetti, hanno goduto non solo di una notevole popolarità, ma hanno fortemente influenzato alcuni scrittori contemporanei, fra i quali vanno annoverati almeno Siegfried Lenz e Heinrich Böll. Alla parabola di Borchert quest’ultimo dedicherà alcune ispirate pagine, sottolineando come si sia trattato di uno scrittore sempre impegnato in una corsa contro il tempo e consapevole di non averne. Siamo certo in piena Trümmerliteratur (letteratura delle macerie), termine che designa le creazioni letterarie nate nell’immediato dopoguerra quale reazione al conflitto mondiale, ai bombardamenti e alla fame, e con tutti i limiti della stessa; ma, soprattutto in taluni racconti, come Die lange lange Straβe lang (Lungo la lunga lunga strada), una specie di prova generale del più famoso dramma, il già menzionato Die Küchenuhr e quel piccolo gioiello che è Das Brot (Il pane), Borchert riesce a trovare un proprio accento personale, basato sull’evocazione di personaggi e situazioni fin troppo semplici, ma che diventano immediatamente simbolici. Il che fa di alcuni di questi racconti uno di quei punti d’incontro sempre più rari tra testimonianza civile e creazione artistica di qualità. Una curiosità per chiudere: il manoscritto di Draußen vor der Tür è andato perduto. Sembra che negli anni della ricostruzione, segnati ancora dalla miseria, sia stato utilizzato come carta igienica. Quanto alla pubblicazione in Italia, delle opere principali di Borchert è esistita una versione pubblicata dall’editore Allemandi nel 2001, ma è ormai fuori commercio da tempo. Sarebbe davvero il caso che qualcuno pensasse a ripubblicarla, colmando questa lacuna.