Al Teatro Argentina di Roma
Migranti & furori
Massimo Popolizio "legge" magistralmente il romanzo “Furore” di John Steinbeck. Nella rabbia e nella disperazione dei braccianti costretti ad abbandonare le proprie terre nell'America degli anni Trenta c'è il dramma dei migranti di oggi, costretti a inseguire la vita nell'altrui indifferenza
Massimo Popolizio, ad apertura della Stagione Teatrale di Pistoia, riesce a farci rivivere con grande pathos il dramma dei braccianti americani devastati dalla crisi degli anni ’30 interpretando magistralmente Furore, il testo di John Steinbeck (lo spettacolo ora è a Roma, al Teatro Argentina). Il tutto, accompagnato alle percussioni da Giovanni Lo Cascio e con alle spalle una serie di immagini d’epoca in bianco e nero che punteggiano al meglio il drammatico testo rielaborato da Emanuele Trevi.
Si parla di una crisi terribile, a metà degli anni Trenta del secolo scorso, generata anche dai disastri climatici che misero in ginocchio gli stati centrali degli Stati Uniti, con bibliche migrazioni soprattutto dall’Oklahoma e dall’Arkansas verso la California. John Steinbeck seguì quelle vicende per realizzare un reportage commissionato dal San Francisco News: un’esperienza che, tre anni dopo, generò il famoso romanzo che dà il titolo allo spettacolo.
Massimo Popolizio, con la sua notevole capacità attoriale, riesce a travolgerci in un crescendo di tensioni che ci fanno rivivere la malvagità umana nei confronti di chi ha bisogno. I termini di queste catastrofi umanitarie si ripetono con continue varianti ma con il tema comune dapprima dell’indifferenza e poi dell’egoismo. Vedi l’apatica posizione dei media e di molti italiani nei confronti delle tragedie in mare dei nostri giorni. Oppure il cinismo verso una situazione pandemica che a molti sembra non riguardare, perché tanto colpisce massicciamente solo gli anziani non produttivi.
Terminato lo spettacolo, con l’adrenalina a mille, viene subito voglia di riprendere in mano Furore e riflettere sui nostri comportamenti verso l’altro da noi.
Massimo Popolizio riesce a farsi seguire con attenzione dandoci dei capitoli che tratteggiano al meglio il suo racconto. Dalla micidiale interminabile Polvere, madre del disastro ecologico d’allora, alla Banca e ai suoi cinici delegati. Fino al Trattore, simbolo del passaggio di mano dal lavoro contadino a quello “tecnologico”, ossia l’evento che costrinse i braccianti a svendere la propria vita per sopravvivere al disastro. Assieme agli oggetti che occorreva abbandonare per andare in cerca di altra terra, altra vita. Perché, in fondo, è questo abbandonare le cose che abbiamo raccolto negli anni, dalle più insignificanti a quelle più preziose – come ci ricordava Steinbeck – ciò che ci fa riflettere sul tema essenziale della nostra stratificata esistenza: «Come faremo a vivere senza le nostre vite?». Tutto quanto i braccianti americani allo stremo hanno dovuto abbandonare per cercare di raggiungere la California, è purtroppo molto simile alla situazione di chi lascia ancora oggi il suo paese per cercare altre terre promesse. E anche ai nostri giorni c’è sempre qualcuno che si approfitta di questa emergenza per fare al meglio, senza scrupoli, i suoi affari.
Noi siamo assuefatti dai morti quotidiani: ascoltiamo storie e numeri ogni sera nei notiziari senza che ci facciano più effetto. Sono drammi invisibili, esattamente come quelli di questi braccianti: chi li vede arrivare riconosce solo l’opportunità di una ulteriore speculazione sul loro bisogno estremo di sopravvivere anche con paghe da fame. Piuttosto che andare incontro ai bisogni di quei migranti – racconta Steinbeck – i proprietari terrieri preferivano far marcire i raccolti. Tutto troppo vicino al nostro tempo purtroppo.
Insomma, un racconto che ci devasta l’anima e che ci conduce a un toccante ultimo capitolo che Massimo Popolizio chiama Latte. Qui, una sorta di inaspettata tragica Madonna con Bambino, dopo aver perso il proprio figlio per via dell’indigenza nella quale ha dovuto condurre la gravidanza, si trova a cercare di sfamare, con il proprio latte, appunto, un vecchio che sta morendo di denutrizione. Un epilogo che lascia dolorosamente indignati per la potenza di sentimenti che sa generare. Grazie al capolavoro narrativo di Steinbeck e alla potenza interpretativa di Popolizio.