Leopoldo Carlesimo
Passeggiata in montagna/3

L’ultima lite

«Attorno ai masi vecchi contadini falciavano prati in forte pendenza bordeggiati di boschi. Aria gelida, finissima, scendeva dalle vette del versante nord. Non fosse stata in pena per quel brutto avvio di week-end, avrebbe riso dell’ingenuità di lui...»

Non era mai stata una donna gelosa. E allora cos’era accaduto la sera prima, perché quella scena? E gelosa di chi?

Erano in macchina, quasi alla svolta. Lui guidava taciturno. L’ampia Valle Aurina si distendeva dinanzi a loro, i fianchi ancora innevati in altura, ma già verde, lussureggiante e ricca d’acqua sul fondovalle. Tarda primavera, la strada correva diritta oltre Villa Ottone, tra campi coltivati a mais e pascoli. Il torrente scendeva impetuoso su un letto di sassi bianchissimi. Un gruppo di giovani in muta, sul greto, si preparava a una discesa di rafting.

Un’illusione del suo lato oscuro. Nient’altro che questo. Una visione distorta o, per dirla in altre parole, il momento dell’oca che può capitare a chiunque, se si lascia andare a certe fantasie… coadiuvate, magari, dalla stanchezza fisica, da una dose eccessiva di vino e di cibo, dalla cattiva digestione… Tutte circostanze che l’avevano portata a vedere cose che non esistono, a credere davvero, come i bambini, che dietro la porta si nascondano mostri. Incubi notturni. A causa dei quali aveva guastato la loro gita, una cosa cui entrambi tenevano tanto… Stupida! Stupida!

Marco era nervoso. Visibimente turbato dopo la lite mattutina. Si teneva aggrappato al volante con entrambe le mani. Al bivio imboccò a sinistra, seguendo il cartello che indicava Lappach / Lappago. Una valle laterale sul cui fianco la strada prese a salire, dapprima con dolcezza, a mezza costa, poi via via più ripida. Costeggiò minuscoli borghi, fienili, stalle, salendo in quota.

Non mancava molto alla diga, una delle loro tappe obbligate nelle escursioni in Val Pusteria e dintorni. Diga e lago di Neves, l’ascesa al Rifugio Porro, sul versante est, quota duemilaquattrocento. Poi il largo giro dell’anfiteatro a pochi passi dal confine austriaco, fino al Rifugio Ponte di Ghiaccio, quota duemilaseicento. Quindi la ridiscesa al lago lungo il versante ovest, quello più ripido. Trekking un po’ azzardato, in quella stagione, coi ghiacciai in fase di disgelo. Ma Giuliana e Marco erano escursionisti esperti e quel tragitto l’avevano percorso dozzine di volte. Una passione che condividevano fin da ragazzi, prima ancora di sposarsi. Era in un rifugio da quelle parti che s’erano incontrati.  

Attorno ai masi vecchi contadini falciavano prati in forte pendenza bordeggiati di boschi. Aria gelida, finissima, scendeva dalle vette del versante nord. Non fosse stata in pena per quel brutto avvio di week-end, avrebbe riso dell’ingenuità di lui: un uomo talmente facile da ferire, Marco, così fragile nonostante il suo apparente cinismo… Adesso, naturalmente, occorreva far pace. Avevano ore e ore, davanti, la montagna l’avrebbe aiutata, sarebbe stata sua complice. La lunga ascensiona in quota, loro due da soli… Uno dei tanti rituali di coppia. Dopo oltre dieci anni di routine coniugale, i meccanismi abitudinari dell’affetto li esigono, senza non sopravviverebbero. E lei l’aveva scioccamente violato. Stupida! Stupida! Proprio quel che la sua amica Marta più le invidiava…

La sua amica Marta, la sera avanti, era stata la prima ad alzarsi da tavola. Erano a cena nella stube di Hilde, la loro base di riferimento nel Sud Tirolo orientale. Una vecchia malga giusto sopra Brunico, in una località panoramica denominata Amaten / Ameto, sul versante nord della Val Pusteria.

Subito dopo cena – cena eccellente, altro rituale che condividevano, lei e Marco, il gusto della buona cucina, la stube di Hilde e Rudi era rinomata in Alto Adige; lei aveva preso una tartare di manzo pusterese e poi dei piccoli, delicati ravioli di fonduta e finferli, concedendosi anche il dessert, le frittelle di mela – subito dopo cena Marta aveva detto:

“Beh, porto i bambini a letto. Partite presto, domani?”

“All’alba,” aveva risposto Marco. “andiamo a Lappach, escursione lunga. Ho chiesto a Hilde di anticipare la colazione alle sette.”

“Io dormirò. Porterò i bambini a fare una passeggiata nel bosco, dopo, e poi forse scenderemo a Brunico”

S’avviò su per le scale, prendendo per mano i piccoli. A Giuliana parve di cogliere uno sguardo furtivo tra lei e Marco, come un cenno d’intesa. Primo segnale.  

Poco dopo, quando Hilde s’avvicinò al tavolo con mezza bottiglia di passito, per scambiare le consuete due chiacchiere prima di sparecchiare, Marco uscì:

“Vado a farmi una sigaretta, fuori,” disse. “Ti raggiungo poi in camera.”

“OK,” rispose Giuliana, mentre Hilde si sedeva sulla sedia fino a poco prima occupata da Marta e cominciava a parlare e parlare. Non aveva mai conosciuto un’altoatesina tanto chiacchierona. Se pure il suo italiano stentato incespicava in pronuncia e sintassi, lei tirava dritto, incurante, la sua foga nel raccontare le ultime dalla malga la trascinava: il loro vecchio cane da pastore era morto quell’inverno, ora avevano un cucciolo che occorreva tirare su; il tetto del fienile perdeva, Rudi era salito su a ripararlo ma alla sua età non era più buono per quei lavori, c’era mancato un pelo che cadesse… Rudi, interpellato, s’accostò al tavolo anche lui, e alla sua maniera ruvida smentì la moglie, che cambiò versione e proseguì con altre storie. La tennero impegnata per mezz’ora. Quando ne ebbe abbastanza e il passito finì, Giuliana s’alzò, diede la buona notte a Hilde e Rudi e salì in camera.

Pensava di trovare Marco già a letto, dovevano partire prestissimo, l’indomani. Ma lui non c’era. Che strano, si disse, ma non ci fece più caso di tanto, forse era uscito di nuovo a fumare…

Si spogliò e si preparò per la notte. D’improvviso una grande stanchezza le era piombata addosso, era stata una giornata intensa: la partenza di buon’ora da Milano, il viaggio in macchina, la sistemazione alla malga, un’escursione nel pomeriggio cui lei e Marco non avevano voluto rinunciare e infine la cena, forse troppo abbondante, innaffiata da quel Riesling talmente leggero che andava giù come acqua, e conclusa da quella mezza bottiglia di passito. Tutt’a un tratto si sentì stordita, sfinita, s’allungò sotto le coperte. Era già mezzo addormentata quando lui rientrò.

“Sono uscito a farmi una fumatina,” disse. “E due passi digestivi per conciliare il sonno. Fa un bel freddo fuori.”

Ma lei quasi non stava più ascoltando. Tuttavia, ripensandoci, come in sogno, le parve d’aver sentito altri passi, oltre ai suoi, lungo le scale poco prima ch’entrasse. E forse un’altra porta chiudersi sullo stesso piano. Secondo segnale. Marco si spogliò. Si chinò a baciarla. Quando fu sopra di lei sentì quell’odore che le rammentò qualcosa, ma non individuò subito cosa. Terzo segnale.

Lui crollò immediatamente. Aveva una facilità ad addormentarsi che gli aveva sempre invidiato. Come poggiava la testa sul cuscino, via… partiva come un bambino, un sonno di piombo, imperturbabile, scandito da quel lieve russare. Modesto ostacolo da superare, per lei, prima di riuscire a sua volta ad addormentarsi.

Un rituale anche quello. L’ultimo piccolo sforzo della giornata, dopo aver brevemente vegliato il sonno di lui. Stavolta, però, faticò più del solito. Che strano. Si sentiva talmente sfinita, così pronta a concedersi un lungo, tonificante riposo, almeno sette ore di sonno profondo fino alla sveglia dell’indomani… Ma forse non era il suo russare a impedirle d’addormentarsi. Ripensò a quell’odore, ai rumori sul pianerottolo, allo sguardo scambiato tra lui e Marta sulle scale… D’improvviso questi tre flash si fusero in un unico, assurdo pensiero. Possibile? No, non era possibile, fantasticava… Che film si montava nel suo cervello? Non doveva permetterlo, occorreva gettare via subito quel canovaccio, impedire a quei frammenti d’amalgamarsi, di comporre una storia… Invece si sollevò sui gomiti e s’allungò su di lui. L’annusò. Quel corpo dormiente, russante, emetteva ancora l’odore… Non c’erano dubbi: il profumo di Marta… E’ vero che lei e Marco sedevano vicini, a tavola, s’erano certo sfiorati e forse presi a braccetto un paio di volte, nel corso della giornata, così, da amici… Bastava, a trasmettergli il suo profumo?

Ma la stanchezza la riprese di colpo. Crollò sul cuscino, affondò la faccia e il naso nella federa fresca, profumata del sapone da bucato di Hilde. Con quel fardello di fatica fisica, cibo e vino, s’addormentò.

Fu un sonno pesante, privo di sogni. Non sogni che ricordasse al mattino, almeno, quando aprì gli occhi, una mezz’ora in anticipo sul carillon della sveglia. Si sentiva perfettamente lucida, fin troppo, come le accadeva in certe mattine speciali. Quando doveva affrontare qualcosa d’importante nel suo lavoro, ad esempio. Una riunione impegnativa, un’udienza difficile in tribunale. Una lucidità eccessiva, inquietante. I pensieri si succedevano a velocità vertiginosa nel suo cervello, che non aveva smesso di lavorare nottetempo. E quella figurazione adesso si presentava abbastanza completa, sufficientemente connessa, impossibile da eludere.

Si sporse su di lui e l’annusò di nuovo. Nessuna traccia del profumo, ora, era svanito. Il suo solito odore di maschio addormentato in prossimità del risveglio; aspro, amaro, caldo: suo marito. Forse quella manovra lo svegliò, o magari era già sveglio… Si girò sulla schiena, le cinse la vita, spinse la mano sotto la camicia da notte aggrovigliata, cingendole il fianco, attraendola a sé… Possibile? Voleva farlo a quell’ora, prima della gita? Il calore delle mani di Marco tra le sue cosce, sopra i seni. Tocchi abitudinari. Altro rituale. Fecero l’amore.

Questo la rasserenò. Ma non fu sufficiente a disfare del tutto quella trama ormai imbastita. Subito dopo, sotto la doccia, mentre si sfregava e sfregava quasi volesse strapparlo via da sé, quell’odore, il tarlo riprese a rodere. Era un’idea assurda, insensata, ma insisteva a comporsi nel suo cervello, come uno di quei meccanismi animati, un automa sfuggito al controllo; mille piccoli frammenti, tessere di mosaico recuperate indietro nel tempo, che si saldavano. Quante volte lui e Marta sparivano insieme… Era accaduto spesso, sempre più spesso ultimamente, nel corso di quasi un anno di gite comuni, di vacanze assieme…

Tutto era cominciato in primavera, quasi un anno prima. Un incontro casuale in quel bar sotto lo studio dove ogni giorno faceva colazione. Quella donna che beveva un caffè al banco e somigliava tanto alla sua amica di un tempo, Marta, una che non vedeva più da un’eternità… Beh, era lei. I loro sguardi s’incrociarono, uno spontaneo moto d’incredulità da parte d’entrambe… Due chiacchiere veloci, nessuna delle due poteva fermarsi al momento. Ma si scambiarono i numeri e si telefonarono.

Quando si rividero – pochi giorni dopo, a pranzo, in un ristorante dei vecchi tempi – la prima cosa che Marta le raccontò fu com’era finita con Luigi. Mise subito in chiaro quella, di storia. Visto che aveva contato tanto tra loro… Gliene parlò con distacco, quasi con freddezza. Ma Giuliana capì che le bruciava ancora. Tra alti e bassi era andata avanti per un bel pezzo. Aveva due bambini, un maschietto di sei e una bimba di quattro. Quel che restava del matrimonio. Lui era fuori dal quadro, definitivamente. Più o meno, ciò che lei – Giuliana – secoli prima le aveva predetto. Ma questo Marta lo menzionò solo di passaggio, senza rancore. “Avevi ragione su di lui,” disse. Giuliana le chiese se aveva qualcuno. Marta le disse di no. Fece un gesto, come… Niente uomini. Chiuso. Elabora ancora il lutto post-coniugale, si disse Giuliana.

Da allora avevano ripreso a vedersi. Giuliana con tatto, con prudenza, di quando in quando era tornata sul tema uomini. Che avevano affrontato assieme da ragazze, qualcosa come venticinque anni prima. Non si poteva mica dire capitolo chiuso a quarant’anni, logico, le sarebbe passata… Ma tutte le volte che toccava quel tasto, Marta si chiudeva, alzava come un muro. Solo su quel punto, la via delle loro confidenze tra donne era interdetta quasi fosse un tabù…

A parte questo, ritrovare Marta significò qualcosa, per lei. La sua amica perduta. Una delle non molte persone che contano, in una vita… Cominciarono a uscire assieme, lei, Marco, Marta e i bambini, a fare gite, trascorrere week-end come un’unica, grande famiglia. L’estate scorsa erano state in Grecia in barca, le isole del Mar Ionio… Quante altre volte, ripensandoci, aveva colto degli sguardi, degli sfioramenti tra lei e Marco, che aveva sempre interpretato come segni d’affetto innocente, d’amicizia. Le avevano fatto persino piacere. Suo marito. La sua migliore amica. Possibile? Chiuse l’acqua, s’infilò nell’accappatoio e s’asciugò il corpo con un’energia nervosa del tutto innecessaria allo scopo.

Quando tornò di là, non seppe trattenersi. Lui era già pronto, perfettamente vestito ed equipaggiato di tutto punto, con lo zaino fatto, le ciaspole che sporgevano dalla lampo, la giacca a vento e il berretto sulla sedia, maglione e calzoni da montagna addosso, camicia di flanella a scacchi, scarponcini… Era un bell’uomo, Marco: alto, asciutto, perennemente abbronzato, capigliatura ancora folta fascinosamente ingrigita, fisico per nulla appesantito benché – montagna a parte – non praticasse alcuno sport. Certo Marta poteva esserne attratta. E conosceva parecchie cose sul conto di lei con gli uomini… Ci sapeva fare, quella civetta, quella gatta morta, sapeva sedurre, ingannare…  

Marco disse:

“Sei in ritardo. Spicciati a vestirti, perdiamo ore di luce. Io comincio a scendere. Ci troviamo giù a colazione.”

“No,” disse lei. “Aspetta. Siediti, ti devo parlare.” E non sapeva perché le fosse uscito in modo così solenne… Era come se a dirlo fosse un’altra, non riuscì a impedirglielo. “Eri solo, ieri sera, quando sei tornato su?”

Marco la squadrò. “Perché questa domanda?” Disse.

“Così. M’è parso di sentire altri passi. Come se foste in due, sulla scala. Con chi eri?”

“Ti sbagli,” disse lui. “Ero solo.”

Eppure, lei era certa d’aver sentito altri passi. Ora, questo non provava certo un adulterio. Poteva aver incontrato Marta – se era Marta – lungo le scale, forse era scesa per qualcosa dopo aver messo a letto i bambini… Ma perché negarlo?

“Ne sono certa,” disse Giuliana. “Ho sentito bene. E la porta della camera accanto s’è richiusa, subito dopo.”

“Avrai sognato,” disse Marco. “Eri mezzo addormentata quando sono rientrato.”

“E il profumo?”

“Che profumo?”

“Avevi addosso il suo profumo ieri sera.”

“Suo di chi? Ma che ti prende, stamattina?”

“Lo sai di chi. Parlo di Marta. T’ho annusato, era il suo, lo conosco.”

“M’hai annusato? Ma che dici?”

“Tu spiegami solo perché vi siete scambiati uno sguardo, quando lei s’è ritirata dopo cena.” Fece una pausa. “Poi perché eri con qualcun altro quando sei salito, e lo neghi. E infine perché avevi addosso il suo profumo.”

“Ma… Tu sei matta. Ti rendi conto di quel che dici? Io scendo giù a far colazione. Lavati la faccia, rischiarati le idee. T’aspetto sotto. Farò finta di non averle nemmeno sentite, queste assurdità.”

Prese la giacca a vento, lo zaino e il berretto e uscì.

Marta, la sua vecchia amica Marta… Un’amicizia nasconde sempre una rivalità, quanto più profonda l’una tanto più l’altra. E la loro profonda lo era stata eccome. Un innamoramento nato da bambine, al catechismo della prima comunione. Una di quelle attrazioni infantili esclusive e dispotiche che maturano a volte, nell’adolescenza, in legami intensi e duraturi. Si somigliavano anche fisicamente, allora, e forse questo le aveva attratte l’una verso l’altra. Poi, crescendo, erano diventate diverse come non si potrebbe esserlo di più: alta, bionda, statuaria Giuliana; bruna, esile, svelta e sensuale Marta. Erano state inseparabili per tutto il liceo.

Avevano preso entrambe Giurisprudenza all’università. Lì, però, le loro strade si separarono. Quando Marta incontrò quel tale, quel Luigi, che Giuliana detestava. La mise in guardia contro di lui. Questo scavò un solco tra loro. Non riuscirono a superarlo, negli ultimi anni di corso s’allontanarono sempre più e quando anche Giuliana si fidanzò – con Marco – smisero del tutto di vedersi. Dopo la laurea Marta sposò Luigi, Giuliana Marco. Non s’invitarono ai rispettivi matrimoni.

Percorsi divergenti. Giuliana fece strada nel lavoro: divenne il più giovane partner di uno studio legale rinomato, a Milano. Seguiva complesse trattative d’affari per grandi società, viaggiava di continuo in Europa, in America, in estremo Oriente. Con Marco, architetto, non avevano figli, né progettavano d’averne, entrambi troppo presi dalle loro carriere. Erano più che benestanti, quasi ricchi, conducevano una vita dispendiosa, si permettevano viaggi e vacanze lussuose.

Anche Marta era entrata in uno studio legale di livello, dopo la laurea. Ma il matrimonio con Luigi, coi suoi alti e bassi, ebbe un cattivo influsso su di lei. Non era serena, e questo nocque al suo lavoro. Lei ci aveva puntato, su quel matrimonio, vi s’intestardì. E a un certo punto s’innestò anche un altro fattore. Quell’ansia di maternità, che la prese grossomodo alla boa dei trenta. Pretese da lui dei figli, riuscì a imporsi, ebbero un maschio. Almeno questo, si disse allora. Ma non giovò al rapporto e la limitò ulteriormente sul lavoro. Dovette lasciare quello studio importante per un impiego part-time in uno meno impegnativo. A quel punto non era già più del tutto convinta di quell’opzione – la famiglia – ma ormai aspettava già la seconda. Nacque la bimba. Il matrimonio andò definitivamente a rotoli. La storia si concluse nel più banale dei modi (come da ragazze Giuliana le aveva predetto; questo temeva, in Luigi: la sua banalità; tanto inadatta, a suo dire, a Marta e alla loro amicizia). Lui la piantò per una più giovane. Lei lo trascinò in tribunale per spremergli più soldi possibile. Intanto, s’era trovata un altro lavoro. Un impiego subalterno in uno studio d’avvocaticchi. Cresceva i figli, tirava avanti.

Percorsi divergenti. Eppure, appena rincontrata, Marta parve a Giuliana sempre come nessun’altra. Si conoscevano a memoria. Niente spiegazioni, tra loro non servivano. Non si potevano ingannare. Una così rara economia di parole, sintonia immediata, con tante cose dietro le spalle. Nessuna al mondo era così.

Sicché ripresero a frequentarsi. Per Giulana, Marta era l’amica sfortunata, quella cui è andata male. La invitava spesso a cena, le offriva gite e week-end che altrimenti non avrebbe potuto permettersi. Quanto a lei, il matrimonio con Marco proseguiva la sua marcia senza scosse, sostenuto da validissime ragioni: un certo numero d’interessi in comune, ambizioni condivise (una bella casa, ricchi stipendi) comuni egoismi. Nessun desiderio d’impegolarsi con figli o con legami familiari troppo stringenti, né lui né lei. Una coppia moderna, affiatata, con le idee chiare, a prova di bomba. Quanto alla banalità… beh, ci si abitua.

Tutto chiaro, lineare, fino a poco fa. Ma adesso… Possibile che lei e Marco… Che razza di faccia le mostrava, quella realtà banale? La sua amica, quell’amica, con suo marito… Ma no, delirava… Finì di prepararsi, controllò lo zaino, la giacca a vento, il berretto, le ciaspole. Scese.

Nella confortevole stube del primo piano, Marco era davanti a una delle meravigliose colazioni che Hilde apparecchiava per i suoi ospiti: burro, latte e yogurt di malga, pane fragrante, marmellate e strudel fatti in casa, miele, kaiserschmarren, frutti di bosco e per gli amanti del salato speck e formaggi guarniti con rafano e sottaceti.

Non alzò gli occhi quando comparve Giuliana, tenne lo sguardo fisso sulla fetta di pane che stava imburrando. Prese dalla ciotola un’abbondante cucchiaiata di marmellata di mirtilli e ce la spalmò su. Nel piatto aveva resti di kaiserschmarren e un avanzo di yogurt.

Giuliana si versò solo una tazza di caffè.

“Non mangi?” chiese lui, senza alzare lo sguardo.

“No. Non ho fame.” Rispose lei.

“Mangia qualcosa,” disse, col tono più dolce che poté. “Abbiamo una giornata faticosa davanti.” Accennò al gran piatto, al centro della tavola. “La kaiserschmarren è buonissima.”

“Tu dimmi solo perché,” disse lei.

“Giuliana, ti prego… Non guastare la nostra gita. Te lo chiedo per favore. Sul serio, non farlo.”

“Dammi solo una spiegazione…”

“Ma spiegazione di che, santoddio!”

“Lo sai, te l’ho detto.”

“Giuliana!” Stava per dire qualcosa, ma poi cambiò idea. Si alzò. “E va bene. Vuoi una spiegazione? Eccotela. Ero solo, quando sono salito ieri sera. Se qualcuno – Marta – ha aperto la porta della sua camera per uscire mentre rientravo, io non lo so, glielo chiederemo stasera, se ci tieni. Lo sguardo che forse ci siamo scambiati per le scale era solo una buonanotte, stava salendo a dormire, no? Non posso essere cortese con la tua amica, perché se no t’ingelosisci? E non lo so se avevo addosso il suo profumo, ma ero o non ero seduto accanto a lei, a cena; e abbiamo fatto la gita, abbiamo passato la giornata insieme, ieri, c’eri anche tu, forse l’avevi addosso anche tu, il suo profumo… E’ umiliante che mi obblighi a dire queste ovvietà…” Fece una pausa. E cambiò tono, cercò di mettere dolcezza nelle parole, come quando avevano fatto l’amore, poco prima. Ma stavolta gli riuscì peggio. “Adesso, mangia qualcosa, ti prego. La giornata è lunga. T’aspetto in macchina.”

Lei notò il suo sguardo turbato. Rabbuiato, le parve. Quello sguardo da ragazzo triste che di quando in quando affiorava in lui, da chissà quali zone fragili, impaurite, sepolte sotto la scorza brillante dell’architetto affermato, del marito sicuro di sé. Quello sguardo ferito e vulnerabile che gli sfuggiva quand’era a terra e che aveva sempre fatto breccia in lei.

Rimasta sola nella stube, Giuliana prese dello yogurt, vi versò su un po’ di miele, mescolò e ne portò alle labbra con indifferenza una cucchiaiata. Si versò altro caffè. Assaggiò la kaisershmarren e ne riprese. Spalmò del burro e della marmellata chiara – albicocche, forse – su una fetta di pane. No, non albicocche, prugne gialle, asprigne, lievemente amare. Mangiò tutta la fetta a morsi lenti. Si versò altro caffè e lo macchiò con un poco di latte. Era molto meglio, macchiato. Infilò in un astuccio che aveva nello zaino un po’ di pane, di formaggio e di speck, casomai li avesse presi la fame, lungo il percorso.

Uscì meditabonda. Lo raggiunse in macchina. Lui aveva già messo in moto. Aprì lo sportello e salì.

A poco a poco, mentre digeriva la colazione e lui guidava calmo, incupito, quei frammenti mal amalgamati subirono un graduale spostamento. Effetto forse dell’afflusso di sangue allo stomaco, decongestionava il cervello. Dissipava sembianze ingannevoli, nebbie inquietanti. L’errore appariva, in tutta la sua evidenza, la verità era forse un’altra. Cominciò a emergere, da sotto il languore della digestione, un vago senso di colpa. Cresceva a mano a mano che la strada si snodava lungo la Valle Aurina.

Quando raggiunsero il piazzale della diga e Marco parcheggiò, lei non se la sentiva ancora di parlarne. Scesero, in silenzio come avevano viaggiato. Presero gli zaini nel portabagagli e s’avviarono a passo deciso lungo il sentiero. Non c’erano altre macchine oltre alla loro. Troppo presto, la stagione non era ancora matura. Solo escursionisti esperti s’avventuravano lungo quell’itinerario a primavera.

Mentre salivano, lasciò che quello spostamento compisse tutto il necessario tragitto dentro di sé. Il silenzio ora non pesava. Non era più, come prima in macchina, un silenzio fosco e nervoso, da dopo lite. Era naturale, il gran silenzio della montagna, indifferente e sovrano, che li avvolgeva mentre salivano col fiato corto; e a nessun camminatore esperto sarebbe venuto in mente di sprecarne per produrre parole.

Fu allorché raggiunsero l’area di sosta, un’ora e mezza dopo, e si sedettero sulla panca protetta dal vento, sotto un costone affacciato su un panorama che conoscevano a memoria.

“Marco,” disse lei avvicinandoglisi. “Sono stata una stupida. Non so che m’ha preso. Scusami.”

Lui ebbe quasi un moto di sorpresa. S’alzò, dandole le spalle. Estrasse il binocolo dallo zaino e lo puntò contro la mole del Gran Pilastro. Parve in imbarazzo. Ruotò lentamente il busto, trascurando negligentemente d’indossare la tracolla. La mole di granito scuro degli Alti Tauri, oltre confine, fronteggiava il delicato calcare grigio-rosato delle Dolomiti. Fece un altro passo.

Lei disse ancora:

“Non avrei mai voluto rovinare una delle nostre ascensioni. So quanto ci tieni ed è lo stesso per me, davvero. Non so proprio perché l’ho fatto.”

Abbassò gli occhi e aggiunse, nel tono più dolce che riuscì a trovare:

“Non ne parlare con Marta, ti prego.”

Perciò, lei non aveva lo sguardo su di lui, quando sentì quel leggero sciabordìo di sassi. Alzò gli occhi, Marco non era dove avrebbe dovuto, quel pezzo di ciglio era vuoto. Il rumore cambiò: era un corpo massiccio, ora, che rovinava lungo la scarpata, strappava sterpi e trascinava terra e infine cozzò contro qualcosa di solido, a valle. Un urto orribile. Il rumore della lieve frana che seguì lungo il ghiaione lo prolungò per qualche istante, come un’eco.

Ma a quel punto Giuliana era già affacciata al dirupo. Il conato di vomito che la percosse le fece fare un balzo indietro. Tremava. Ci mise un po’ a recuperare la lucidità. Si pulì con la manica. “Devo fare qualcosa,” si disse. “Devo calmarmi. Se non faccio qualcosa io, nessuno può.”   

Così, con freddezza, china sull’orlo del burrone, rilevò e annotò la posizione esatta sul GPS del cellulare. Poi lo usò come un normale telefono e chiamò il Soccorso Alpino. Diede l’allarme, fornì loro tutte le informazioni necessarie, rispose con precisione alle loro domande, ascoltò in silenzio raccomandazioni e istruzioni.

A una di esse non poteva certo obbedire. Quel che le avevano perentoriamente vietato, lei s’accinse immediatamente a farlo: studiò dall’alto la via giusta per scendere fino a lui, un cammino percorribile senza che le piccole frane che avrebbe inevitabilmente innescato lo investissero. Raggiungerlo. Questo solo contava.

Era un’escursionista esperta, sapeva come fare. E in effetti, per i primi venti metri riuscì a scendere quasi senza scivolare e senza innescare frane. Ma quando poi dovette affrontare il tratto più impervio, un pezzo del ghiaione si staccò sotto il suo peso e la frana la travolse. Ruzzolò per una decina di metri prima di fermarsi contro uno sperone, contusa, sanguinante… Ma non seriamente ferita. Solo un po’ di graffi superficiali qua e là, un colpo un po’ più serio al fianco, che sopportò stringendo i denti. Riuscì ad alzarsi. Aveva la giacca a vento strappata, i pantaloni lacerati in più punti… Però, tutto sommato, non danni seri. Riprese a scendere.

Quando lo raggiunse, e lo prese tra le braccia, adagiando la sua schiena contro il suo petto, ne sentì il respiro e seppe ch’era vivo. Aveva una brutta ferita alla testa, i capelli erano intrisi di sangue, c’era un’orribile striscia di materiale organico sulla roccia contro cui aveva picchiato e una gamba era piegata in modo innaturale, formava uno spigolo acuto sotto la stoffa dei pantaloni, probabilmente una frattura esposta… ma era vivo.

Questo la costrinse di nuovo a essere lucida. Doveva richiamare i soccorsi, informarli che lo aveva raggiunto, dare le indicazioni che poteva sul suo stato di salute, le sue ferite… Cercò il telefonino nella tasca della giacca a vento, ma il telefonino non c’era, la tasca era strappata, probabilmente lo aveva perso nella caduta… Allora frugò nella giacca a vento di lui, trovò il cellulare, lo accese. Era bloccato, naturalmente, e non conosceva la combinazione. Ma riuscì a sbloccarlo col riconoscimento facciale: lo mise davanti al volto inerte e tumefatto di Marco, tirandolo su alla meglio per i capelli… e quello si sbloccò. Era dentro. Poté richiamare il Soccorso Alpino, dare tutte le informazioni necessarie. Loro furono rassicuranti, autorevoli, l’elicottero era già in volo, mezz’ora più o meno e li avrebbe raggiunti.

Riattaccò. Fu allora che vide, sulle icone del cellulare, tutti quei messaggi senza risposta… Li aprì. Era Tarma. Una certa Tarma. Ma la faccia, nella foto whatsapp, era quella della sua amica Marta, la sua cara, vecchia amica… Tarma era un anagramma, un camuffamento. La sua amante Tarma.

Mentre scorreva i messaggi che risalivano a mesi prima – un’infinita teoria di messaggi che rimandavano a week-end passati, a vacanze comuni, a una quantità di altri incontri, a Milano, per tutto l’autunno e l’inverno –  mentre scorreva tutto questo il volto di Giuliana s’irrigidì. Uno strano rigore di maschera ne prese a poco a poco possesso, distese le rughe, spianò emozioni, calcellò ogni traccia d’ansia, di paura. Di umanità. Una maschera non benevola. Le cui uniche parti mobili – gli occhi – continuavano a saltare alternativamente dal volto di Marco allo schermo del cellulare, dallo schermo al volto.

Lesse uno per uno quei messaggi. Dall’ultimo, il più recente, fino al primo, quasi un anno fa. Poi di nuovo l’ultimo, quel mattino: “Giuliana sospetta qualcosa. Forse imprudenti ieri sera. Non farti vedere a colazione.” Seguivano emoticon di baci e cuoricini. A quel punto, gli occhi di Giuliana erano ridotti a due fessure.

Fu piuttosto goffa e contratta nei movimenti – le contusioni della caduta cominciavano a farsi sentire – quando scivolò da sotto al corpo, liberandosi del suo peso. S’inginocchiò sopra di lui, sdraiato sulla nuda roccia. Il cellulare lo rimise a posto, nella tasca interna della giacca a vento, dopo essere deliberatamente uscita da whatsapp. Richiuse la lampo. Gli sollevò la testa per i capelli. La picchiò sulla roccia. Una, due, tre volte. Ripetutamente. Con violenza adeguata. Il materiale organico che ne sprizzò si mescolò a quello ch’era già sparso in giro. Gli occhi restarono asciutti per un po’, dopo. Ma le lacrime cominciarono a scendere quasi da sole, non dovette neppure forzarle, quando sentì in lontananza il rombo dell’elicottero dei soccorsi in arrivo.


3. Fine

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