Alle Scuderie del Quirinale di Roma
L’Italia degli altri
Una mostra molto spettacolare racconta l'arte "italiana" prima della nascita dell'Impero romano. Ci sono i segnali di una creatività diffusa che raccoglieva idee e suggestioni dai popoli sottomessi e integrati grazie al grande mito di Roma
«Iuravit in mea verba tota Italia». Giurò in mio favore l’intera Italia. È la frase pronunciata da Ottaviano, nel 32 a.C, prima di imbarcarsi nella spedizione contro il rivale Marco Antonio e la sua alleata egiziana Cleopatra, sigillata due anni dopo dalla vittoriosa battaglia di Azio. Un azzardo politico coronato da successo, perché davvero quello che sarebbe divenuto il primo imperatore di Roma col nome sacro di Augusto riuscì con le sue riforme a portare a compimento il processo di unificazione di tutti i popoli e le comunità che abitavano la penisola italiana, iniziato quattro secoli prima con l’inarrestabile espansione della città fondata da Romolo.
Tota Italia, è il titolo assegnato, con un voluto rimando all’attualità, alla mostra con cui le Scuderie del Quirinale riaprono al pubblico, portando in scena la lunga, tormentata e complessa trasformazione di quei quattrocento anni. Una sorta di scommessa anche questa perché – come ammettono nei saggi di presentazione in catalogo gli stessi due curatori, Massimo Osanna e Stephane Verger – il trionfo e l’egemonia della cultura romana ha cancellato molte tracce di questo processo di assorbimento dei popoli assoggettati, rendendo impervio il lavoro di recupero delle loro voci originarie da parte degli archeologi.
Su una grande mappa nella seconda sala la situazione di frammentazione del territorio italico nel IV secolo a.C. è documentata con visibile efficacia dalla segnalazione di venticinque aree occupate da genti ed etnie diverse, per radici, lingua, tradizioni, costumi religiosi e organizzazione sociale. Dai Galli provenienti dall’Europa centrale e insediati nella Padania subalpina agli Etruschi, dalle bellicose genti arroccate sulle pendici degli Appennini a quelle che si sono coagulate al Sud attorno alle colonie e ai regni della Magna Grecia.
Troppe le diversità da far emergere in uno spazio espositivo prestigioso ma limitato come questo palazzo settecentesco sul Quirinale. Senza intaccare la vocazione allo spettacolo e alla raffinatezza del colpo d’occhio complessivo che è diventata la cifra distintiva di tutti gli allestimenti delle Scuderie.
Una ricerca di bellezza e una scelta di cimeli di forte coinvolgimento visivo che ha un po’ annacquato gli originali spunti di partenza e l’ampiezza narrativa della mostra, spingendo gli organizzatori a privilegiare tra materiali a disposizione quelli di più alto valore estetico. La fine del racconto, piuttosto che il suo svolgimento: l’epoca del principato d’Augusto, in cui l’aristocrazia di Roma – consolidati i confini dei suoi domini e ormai padrona incontrastata del Mediterraneo – impone a tutti i popoli assimilati i propri modelli di vita, il suo gusto, i suoi lussi, una visione dell’arte che insegue la perfezione e la leggerezza di forme della Grecia conquistata e dell’ellenismo.
Davvero affascinanti i materiali selezionati per evocare questo porto d’arrivo di pacificazione e unificazione della penisola. Incantevole il monumento funerario prestato dal museo delle Terme, con quel coro di fanciulle che agitano tuniche e veli, ognuna con un gesto, una posa diversa, e qui avvolgono lo sguardo dei visitatori davanti al grande scalone all’ingresso. La stessa stupefacente leggerezza trasmessa dalle forme intagliate sul marmo del trono decorato, prestato dalla galleria Corsini, che ti cattura nella prima sala. O ancora dalla statua in bronzo di un giovane Apollo che sosteneva una lampada e ravvivava con la sua grazia stilizzata e ammiccante i licenziosi convivi nella casa di Giulio Polibio in una Pompei ormai completamente romanizzata che aveva perso il ricordo della città ribelle, assediata e distrutta dalle truppe di Silla. Un repertorio e un biglietto da visita di squisita bellezza, che certo serve a magnificare e pubblicizzare quasi come una via d’uscita dall’incubo del Covid i tesori delle soprintendenze e dei musei chiamati qui a collaborare, ma rischia di dirottare e inchiodare il visitatore su una pista piacevole, ma fuori asse.
Perché la storia che la mostra ci promette di raccontare è una storia che dovrebbe essere scritta con la lingua dei diversi e dei perdenti, molto più sporca, marginale, popolare di quella che i gioielli che circolano nelle case dell’Italia pacificata e le fonti ufficiali più tarde hanno immortalato.
Fra i tanti capolavori che suscitano questo effetto forse uno solo, a mio avviso, riesce a sottrarsi, nonostante sia tra le opere più note inserite in percorso. È la statua del Pugilatore a riposo del Museo Nazionale Romano, che svetta isolata nell’ultima sala del primo piano. Datata ormai con certezza al primo secolo a.C., è molto probabilmente una copia di un originale perduto forgiato nel IV secolo a.C. dal maestro greco Lisippo. Ma definire un copista il suo autore sarebbe davvero un insulto. Quella figura di atleta vecchio, stanco e ferito, dissepolta sotto uno strato di terra sul Quirinale dove chi lo custodiva, conscio del suo valore, lo aveva nascosto per proteggerlo, è uno dei ritratti più straordinari che il mondo classico ci abbia restituito. E inserito qui, quel corpo martoriato di lottatore, forse uno schiavo come quelli che si esibivano nelle arene prima della nascita del Colosseo, un taglio sulla guancia, il sangue che dosati inserti di rame sembrano far zampillare dal petto e dalle braccia, finisce per acquistare un risalto emblematico. Una simbolica testimonianza del dolore, dei lutti, delle cicatrici profonde, degli scontri, delle perdite d’identità che segnano la progressiva sottomissione delle genti italiche al potere di Roma e delle sue classi dirigenti.
Un controcanto plebeo come quella scritta che sporca un affresco proveniente dal larario di una casa-bottega di Pompei. Una figura femminile, la dea Fortuna che rivive nelle sembianze orientali di Iside, divinità importata, e accanto il corpo più minuto e ripiegato di un giovanetto. Sopra, come la didascalia di un fumetto, lo sberleffo di un cliente che irride quella posa accovacciato: Attento a dove cachi.
O come quelle rozze terrecotte votive, occhi, piedi, orecchie, organi genitali, lasciate per grazia ricevuta da contadini devoti di un santuario di Ponte di Nona, il lembo di periferia fuori del raccordo dove Caltagirone ha costruito i suoi palazzoni. O come la massiccia Mater matuta di Capua, IV secolo a.C., una delle cento trovate in un sito sacro della città campana, passata sotto il dominio degli Etruschi, dei Sanniti e dei Lucani, prima di federarsi con Roma: una donnona in posa regale ma imbruttita dagli anni e dalla fatica dei dodici neonati appesi al suo grembo, eletta a dea della fertilità. Culto che perdurò a lungo con il favore dei dominatori, negato ad altri numi di popoli che invece si erano opposti con le armi: come la dea Angizia, venerata dai Marsi, altri accaniti guerrieri del fronte opposto, o Taras, eroe fondatore di Taranto, temibile città-stato rivale della Magna Grecia, raffigurato qui in mostra da un flessuoso atleta che cavalca un delfino.
Nelle vetrine che scandiscono il percorso della mostra, scaglionato in vari capitoli, molti i gioielli e i pezzi di squisita fattura, o le chicche come il piatto votivo, III secolo a.C., trovato a Capena: raffigura un elefante con un baldacchino zeppo di soldati ed evoca una delle tante guerre che Roma ha rischiato di perdere, l’invasione di Pirro, re dell’Epiro, in aiuto dei popoli italici del Sud in rivolta. Ma il cimelio più significativo, è probabilmente il più piccolo e meno appariscente: una moneta su cui è incisa una testa femminile coronata d’alloro con accanto una scritta, Italia. Fu coniata a Corfinium negli anni della guerra sociale. Il nome dell’Italia usato come bandiera dell’Italia unita, non da Roma ma ai centri di varie regioni ed etnie che reclamavano la cittadinanza romana e parità di diritti con i suoi abitanti. Un conflitto scatenato dalla sanguinosa lotta intestina fra aristocratici e ceti popolari che neppure i morti della guerra civile erano riusciti a scongiurare.
Alla fine i ribelli riuscirono a spuntarla. Tota Italia nacque così. Poco meno di mezzo secolo prima dell’ascesa al potere di Augusto, cui va il merito di aver dato una sistemazione definitiva e una veste giuridica uniforme a quel nuovo Stato.