Al Maxxi di Roma
Il cappotto di Lenin
Cerca di fare i conti con la storia tormentata dei Balcani (e non sempre ci riesce) una grande mostra (pensata e realizzata a Belgrado) che espone gli artisti contemporanei e quelli del "realismo" gli uni accanto agli altri
Quattro immagini a riassumere dubbi ed emozioni della mostra con cui il Maxxi riapre i battenti. Continuando la sistematica esplorazione delle voci e dei fermenti artistici dei territori che gravitano o si affacciano sul Mediterraneo. In primo piano stavolta la tormentata e frastagliata realtà della ex Jugoslavia: un mosaico di paesi e di popoli, stessa collocazione geografica nell’area balcanica, tradizioni, culture, lingue e religioni diverse, ricucito in Federazione dopo la seconda guerra mondiale sotto l’anomalo regime socialista di Tito, e poi frantumato dopo la morte del dittatore e il crollo del muro di Berlino, da una sanguinosa guerra civile che si è conclusa poco più di venti anni, lasciandosi alle spalle cicatrici di crimini, genocidi, odi, esodi di massa, derive nazionaliste non ancora rimarginate.
Uno scenario di conflitti e tensioni che sulla carta offriva un test ideale anche per valutare la capacità dei linguaggi e dei protagonisti dell’arte contemporanea di misurare, rileggere passato presente e futuro e indicare vie d’uscite possibili da questo tumulto. La mostra del Maxxi ci è riuscita solo in parte. Perché? La risposta si può intuire, a mio avviso, proprio dai quattro segmenti di immagini, con cui ho provato a riassumere lo spettacolo complessivo, molto più articolato, delle oltre cento opere in esposizione.
La prima visione, quella di più forte e imponente impatto, abbraccia un centinaio di tele di piccolo formato disposte su più file che tappezzano la lunga parete ricurva alla sinistra dell’ingresso. E una galleria di ritratti commissionati e raccolti nel 1951 per celebrare le imprese dei personaggi che in Bosnia Erzegovina parteciparono alla resistenza armata contro l’invasione nazifascista e poi all’opera di ricostruzione. Tessere di un museo mai nato che solo dopo il 2011 si conta di rimettere in vita.
Volti di partigiani, soldati, funzionari, affiancati alle facce di persone qualunque, medici, ingegneri, operai, solo un paio di donne. Molti hanno lasciato la vita sul campo, altri hanno attraversato da postazioni diverse e con meno pericoli l’epoca di riunificazione di Tito. I dipinti, pochi di buona qualità, databili da uno realismo stereotipato e uniforme, tutti o quasi ingrigiti da patine mai rimosse, lasciano solo intuire, dagli abiti e dalle pose, il ruolo di quelle figure. A battezzarli in basso solo i loro nomi che purtroppo dicono poco.
Un album collettivo di imprecise carte d’identità, che riaffiorano alla vista come cimeli di un tempio, di un sepolcro dissepolto. Trascinandosi appresso per il valore di istallazione che questo ripescaggio ora assume un sapore di dubbi e domande irrisolte sugli obiettivi e le lacune di questa operazione.
Sono reperti che vengono dalla Bosnia Erzegovina, uno dei territori dei Balcani dove trent’anni fa la guerra fratricida e i crimini di pulizia etnica che l’hanno caratterizzata, ha impresso le ferite più profonde, creato squilibri ancora da riassorbire. Eppure nulla in mostra ce lo ricorda. Una rimozione che offusca l’obiettivo, più che lodevole, di porre riparo a un’altra rimozione: il colpo di spugna sul ruolo vitale della resistenza, sulla vittoria contro il fascismo, sui meriti per la riorganizzazione, sulla singolare esperienza socialista varata da Tito e difesa con i denti tanto dalle minacce di Mosca e di altri paesi del blocco comunista quanto da quelle del capitalismo occidentale.
Giusto chiedersi oggi che cosa sia ancora valido e recuperabile di quell’esperienza di convivenza e organizzazione sociale della ex Jugoslavia, sommariamente liquidata dal verdetto di estinzione del liberalismo selvaggio dei poteri finanziari che ha travolto assetti e formulazioni della rivoluzione comunista. Ma per farlo bisogna sgombrare il campo da macerie e rimpianti, senza alcuna omissione. Dar conto degli errori e delle forzature che hanno innescato gli orrori della guerra civile e ridotto in frantumi in modo irreversibile il processo di riunificazione dei Balcani. Spiegare e non nascondere le differenze. Come invece fa questa mostra ideata a Belgrado, in una Serbia che non si sa dove stia andando, imperniata sulla ricerca di nuovi modi di essere eroi al giorno d’oggi e trapiantata con lievi ritocchi qui a Roma. Confermando un vizio ricorrente di molte manifestazioni da esportazione chiavi in mano del contemporaneo, in cui la narrazione e il taglio dei curatori, sovrasta e addomestica quello degli stessi artisti, negandoci strade di conoscenza meno coerenti forse, ma più problematiche. E coinvolgenti.
Non sempre per fortuna. Come dimostra la seconda scheggia che mi ha colpito. È l’opera concettuale di un artista croato ultrasettantenne, Dalibor Martinis. Un enorme cappotto di feltro appeso al soffitto che ostenta al centro un grande squarcio slabbrato. È, ingrandito, il cappotto che copriva una statua di Lenin contro la quale si è scatenata alla fine degli anni Ottanta la furia di un gruppo di manifestanti, convinti di potersi liberare così, con la distruzione e lo sfregio di un monumento, della memoria e delle restrizioni del comunismo. Lo strappo è lo stesso provocato sulla superficie di bronzo da un ordigno esplosivo, che l’autore ha riprodotto con una corona di piccole micce applicata alla stoffa (nella foto accanto al titolo). Quel buco ora ci fissa e ci scaglia addosso una domanda inquietante: sicuri davvero che ci si possa liberare e vendicare così del peso della storia, dei suoi eroi, veri o falsi, della catena di cadute ed errori che l’hanno scritta?
Ed eccoci alla terza immagine. È il video di Adela Jusic, 38 anni, filmaker nata e cresciuta a Serajevo ngli anni in cui la citta era cinta d’assedio dalle milizie serbe. Suo padre era un cecchino che difendeva la città. Per mesi ha sparato e ucciso altri cecchini come lui, appostati sul fronte opposto a sparare ai passanti o ai nemici che uscivano dalle trincee. Poi annotava ogni giorno il numero delle vittime sul suo diario. Lo schermo inquadra in basso le pagine di quel diario, in alto la mano dell’autrice che traccia un cerchio rosso. Il colpo all’occhio destro che ha ucciso suo padre. E posto fine alla sua sporca missione. Un ultimo congedo sigillato dalla sua immagine in posa con il fucile in pugno.
Immergersi nel proprio dolore, confessando però la colpa che l’ha generato. Forse l’unico modo possibile per liberarsi e liberare il presente di una nazione e di un popolo dagli spettri di un’umanità calpestata. Come insegnano i processi trasformati in confessioni senza condanne con cui Nelson Mandela ha traghettato il Sud Africa verso il dopo apartheid.
Infine la quarta immagine. È una foto firmata da un artista, Igor Grubic, che viene dalla Croazia, altro paese che a volte ha mostrato al mondo il suo volto peggiore nella guerra di milizie che ha insanguinato il tramonto della ex Jugoslavia. Nell’inquadratura il volto incorniciato da un paio di baffetti e il corpo minuto di un uomo qualunque, alle spalle un paio di ali d’angelo disegnate sull’intonaco. Sembra chiedersi, chiederci: ma io cosa c’entro. Che ci faccio qui? Quale eroe migliore per questa mostra in cerca di eroi piccoli piccoli da cui ricominciare.
Una mostra che per fortuna si scusa in partenza dei suoi difetti con un titolo davvero azzeccato, Più grande di me. Ma poi si perde nei rivoli della nostalgia per un passato che non può tornare. E di un presente di nuovi incubi, nuove ingiustizie, nuovi orrori, come quelli che si consumano alle frontiere per bloccare la rotta dei profughi dell’Africa, dell’Asia, del medio Oriente, diretti verso l’Europa. E che gli artisti selezionati per l’occasione non sanno o non vogliono raccontare.