Il Ceppo 2021 in tre parole /1
Da Eleganza… a Corpo, a Carne
“Ferite e rifioriture” il motto del 65° Premio Ceppo che rilancia la propria missione culturale con cinque novità. Dedicato quest’anno alla Poesia, ecco come i poeti finalisti sintetizzano in tre parole-chiave il loro “centro di gravità” poetico. Si inizia oggi con gli Under 35…
Il Premio Internazionale Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, è un premio-laboratorio che mette a fuoco le radici antropologiche della letteratura, anche nel nome di Leone Piccioni, fondatore del premio. Michele Bordoni con Gymnopedie (Italic Pequod) è uno dei tre finalisti al Ceppo Poesia Under 35, che il 25 giugno vengono votati dalla Giuria dei Giovani lettori. Come scrive Milo De Angelis nella motivazione, il poeta «scrive con questo libro il suo De brevitate vitae e al tempo stesso il suo inno alla luce folgorante delle giornate e degli incontri, alla loro musica arcana e concretissima che ci investe e ci chiede la parola» (www.iltempodelceppo.it).
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Eleganza
«Resistere ad avere un’eleganza / che sia preghiera e perimetro di voce». Questi due versi emersero una mattina d’estate in una pineta marittima a metà dell’Adriatico. In quel periodo stavo combattendo con gli “astratti furori” della domanda: “Come può l’uomo resistere al dolore, come può dirlo?”. Vennero dal mare, questi versi; ora sono al centro di Gymnopedie (Italic Pequod 2018), colonna portante del libello. L’eleganzadi cui si parla non è soltanto la cura metrica e retorica cristallizzata nell’endecasillabo, il verso più nobile della tradizione italiana, non è l’assunzione di un tono, di una postura. Sembra essere, più che altro, la dimensione (est-)etica della voce della poesia. Dire qualcosa in maniera elegante, avere un’eleganza nel pronunciare il dolore, nel cercare di penetrarne il mistero (che poi è il mistero tragico del nostro essere qui) è avere rispetto per l’esercizio della parola, custodirne la sacertà, rispettare con essa anche chi ascolta, la sua dimensione umana. Eleganza come gesto aggraziato, aureo e composto, frutto di una pratica quotidiana che permette di raggiungere la cura necessaria alla dizione delle cose, degli altri, di sé. Questa eleganza, nel distico citato, è corredata da altri due termini, ovvero “preghiera” e “perimetro”. Queste due parole, me ne accorgo solo ora a tre anni di distanza, completano l’eleganza in maniera fondamentale e anticipano le altre due (corpo e carne) che invece marcano lo stadio attuale del mio essere poeta. La “preghiera” è innanzitutto un vocativo, una chiamata verso qualcuno, stabilire un contatto oppure – paradossalmente – la creazione di uno spazio dedito all’ascolto (meraviglia di una poesia che ascolta e tace!). Il “perimetro” è invece il riconoscimento dei limiti e dell’estensione della propria voce, della propria possibilità. La poesia, e qui alcune pagine di Bonnefoy e del suo “improbabile” mi tornano in mente, non può resuscitare i morti, non può, con la sua presenza, sostituire un’assenza. Semmai può aprirne il circolo infinito, il richiamo pressante. Questo riconoscimento dei propri limiti, e dei limiti della poesia, conduce alla seconda parola.
Corpo
La parola corpo è spesso sinonimo di materia inerte, di massa che ingombra uno spazio. Già prima di Platone, il corpo è la parte negativa del cocchio alato, il cavallo riluttante e zoppo che trascina l’anima a sfracellarsi al suolo e che il cocchiere prova a salvare (per salvare in primis sé stesso) nel suo balzo metafisico. Il corpo, in termini poetici, è tutto quello che può finire sotto il termine “vita”, nel suo più quotidiano scorrere; una pratica perenne, banale se si vuole, che la parola – dicono – illumina e significa, quasi traducendola in forme astratte in cui la vita si riassume (è un po’ lo spettro mallarmeano e del simbolismo in generale che, vuoi o non vuoi, ha avuto su di me un certo ascendente). Ecco, quello che sto cercando di fare, in questi ultimi tempi, è oppormi a questa trasformazione metafisica del corpo, a questa riduzione della materia, della percezione, dell’altro in parole astratte, come in questo caso: «Anima sarebbe invece / ridursi alla clausura del mio limite / trovare la misura della carne, / il suo ostinato inchiodarsi alla vita». È un tentativo di confermare le parole di Marina Cvetaeva, per cui «l’anima, che per l’uomo comune / è il vertice della spiritualità / per l’uomo spirituale è quasi carne». La “pesantezza”non è solo impacciata; anche essa può essere elegante, “graziosa”. Solo così, con il corpo, le parole possono essere più di una traduzione di esperienze, più di un’immagine lapidaria della vita (che in questo modo, più che essere tale, si dona al suo contrario).
Carne
Le parole “del corpo”e “il corpo delle parole” permettono di evocare l’ultimo termine, ovvero questa carne che sembra smarcarsi poco dal corpo. Non intendo, con carne, qualche organo, un tipo di tessuto, un bancone da macellaio. Non sto parlando in termini anatomici ma fenomenologici. Con Merleau-Ponty la carne è questo: «Vedo, colgo e percepisco tutto ciò che mi si presenta e tutto ciò verso cui io, attraverso il mio corpo mi rivolgo. Il Mondo è a me presente ed io sono presente al Mondo». La carneè quasi il basamento in cui si dà l’emergenza visibile del mondo, il terreno che permette il contatto tra me e me (quando afferro la mano sinistra con la destra, tocco e sono toccato) tra me e gli altri («se tocco la tua pelle mi confondo / con la mia, non so dove io finisca e dove tu / hai luogo»). Solo tramite questo terreno è possibile comunicare, essere l’uno affianco agli altri (dice Filippo Davoli: «amate spoglie sorelle / che tutti siamo parte del tutto / e gli uni degli altri»). Ed è questa, per me, la potenza e l’utilità – se vogliamo – della poesia: rendere visibile il comune terreno che ci fa comunicare, dire la verità sulla nostra fragile, umana, condizione, e in questo essere eleganti, rispettare l’altro nel suo irriducibile essere singolo, unico. Eleganza come formulazione di parole che, dal corpo, permettono la dizione del terreno che ci rende vicini, che permette l’abbraccio. Dizione che è distanza, giusta lontananza perché possa elargirsi la visione, riconoscere la vita al proprio fondo. Essere, fino alla fine, creaturali.
(Nell’immagine vicino al titolo: Raffaello, Allegoria della poesia, particolare, volta della Stanza della Segnatura; nel testo, Michele Bordoni).