Disponibile su Raiplay
Violetta e il virus
Sa di cinema e di televisione (oltre che di lirica, ovviamente) la "Traviata" di Mario Martone al Teatro dell'Opera per RaiCultura. Ma al di là delle invenzioni della regìa e della direzione sicura di Daniele Gatti, questo spettacolo ha colpito per come ha lasciato spazio al fantasma del covid
Lo sfondo dei ruderi di Roma per il duello tra Alfredo e il barone Douphol, il carnevale che mentre Violetta muore impazza nel budello che da via Nazionale porta a piazza Beniamino Gigli. Mario Martone per La Traviata andata in onda in prima serata su Raitre (e ora disponibile su Raiplay) diffida delle astruse attualizzazioni spesso in voga nelle messinscene liriche. E però non rinuncia all’hic et nunc, ma con tocchi intelligenti, come se quel che stiamo passando – contagi, lockdown, teatri chiusi – si intrufolasse dal buco della serratura, dall’occhio consapevole del regista. E allora La traviata voluta da Rai Cultura e dal Teatro dell’Opera di Roma ha vestito, sì, i panni dell’epoca in cui Giuseppe Verdi l’ha ambientata, l’Ottocento di una “swinging Paris”, e però lo struggimento di Violetta ha mostrato in filigrana quello del mondo sfinito dalla pandemia.
Un film-opera-televisione. Che va oltre i famosi esperimenti cine-piccolo schermo, ormai di decenni fa, come “Tosca nei luoghi e nelle ore della Tosca”. Nel caso attuale si maneggiano i tre mezzi – teatro, cinema, tv – con un travaso continuo di specificità, facendo di necessità virtù. Il regista napoletano – che a dicembre scorso ha firmato sempre per l’ente lirico capitolino un effervescente Barbiere di Siviglia, con mascherine a vista e Figaro che arriva al Costanzi in sella a uno scooter mentre canta la celeberrima cavatina – usa ancora di più in questa Traviata gli spazi del Teatro dell’Opera e non solo palco, platea svuotata dalle ormai ahimé inutili poltrone, palchetti dorati; infila piuttosto la macchina da presa in corridoi di passaggio, scale, perfino la sala degli ambitissimi cocktail offerti un dì al pubblico delle prime. Tutti inquadrati in maniera diremmo distopica, rovesciata, come le poltroncine broccato e dorature delle quali si mostra invece le tela grezza e le stringhe sotto la seduta, perché appunto rovesciate sul pavimento sono.
Dunque, il disordine doloroso fino all’agonia nel quale precipita Violetta proprio mentre sfiora la felicità e il riscatto morale è lo stesso disordine nel quale un virus venuto dalla foresta asiatica ha fatto precipitare le opulente ancorché contraddittorie certezze dell’Occidente. Ma non si pensi che questa lettura – soggettiva da parte di chi scrive – abbia sclerotizzato lo spettacolo lirico-televisivo in contorcimenti intellettualistici. La Traviata vista su Raitre – da un milione di spettatori, ed è un record per il melodramma in prima serata, il quale potrà essere rimpinguato da quanti ripescheranno la trasmissione su Raiplay – è stata quella che tutti conosciamo, con le due feste parigine, il colpo di fulmine tra la lasciva e il rampollo di buona famiglia, il perbenismo di Germont padre, la tragedia della malattia e della solitudine, il rimorso dei protagonisti maschili. Dunque, nulla ha scalfito il meccanismo drammaturgico di Dumas-Piave (il plot originario della Signora delle camelie e la rivisitazione del librettista italiano) né soprattutto la musica immortale e internazionale di Giuseppe Verdi, restituita con particolare sensibilità dall’Orchestra dell’Opera di Roma diretta da Daniele Gatti (tanto sommesso quanto commovente il preludio del primo atto, anche se questa Traviata si è sciorinata senza soluzione di continuità, appunto come un film).
Mario Martone, da parte sua, ha organizzato le invenzioni registiche su due piani. Da un lato le sregolatezza dei protagonisti: Violetta e le altre signore più che mantenute sono prostitute, distese sui divani dei palchetti del teatro dell’Opera con le gambe in bella mostra fasciate da calze a righe, mentre la ripresa indugia sulle loro scollature dove i “cavalieri” infilano banconote; la protagonista (una scatenata Lisette Oropesa), dopo aver ricevuto la dichiarazione d’amore di Alfredo (un introverso Saimir Pirgu) seduta con lui sulle scale tra un piano e l’altro del teatro come un’adolescente sulle scalette fuori da scuola, ingurgita coppe e coppe di champagne alla fine della festa, e traballa allucinata, al pari degli scomposti toreri e zingarelle nel dionisiaco balletto – corpo di ballo dell’Opera, coreografia di Michela Lucenti – del secondo atto.
Dall’altro lato, l’inquietudine e il rimpianto per ciò che manca, ciò che è finito. Dal finestrino della carrozza a cavalli che lo porta a Parigi, Alfredo vede invece il tratto delle terme di Caracalla dove si allestisce la stagione estiva (l’altr’anno dimidiata) della lirica capitolina. Giorgio Germont (il baritono Roberto Frontali) fa cadere ad una ad una le ancore d’amore di Violetta insieme con i teli dipinti di foglie ed alberi del buen retiro in campagna dove lei e l’amato si sono rifugiati per vivere lontano dalla pazza folla parigina. E così rimane spoglio il palcoscenico del teatro, con le attrezzerie in vista, tanto spettacoli dal vivo non se ne fanno e chissà fino a quando… L’agonia di Violetta si consuma su un letto piazzato dietro il sipario chiuso, poi sul nudo pavimento in un abbraccio un po’ troppo contorto con l’amato. E il loro ultimo sogno di speranza si materializza in un valzer attorno al gigantesco lampadario della sala dell’Opera, calato giù come si ammaina una bandiera. Muore Violetta, il braccio abbandonato pesante dalla sponda del letto al pari di Marat assassinato nella vasca da bagno nel dipinto di David. È finita un’epoca.
Non cala il sipario, nessuno applaude, cantanti e musicisti non ringraziano né sciamano fuori scena. Solo silenzio e, su sfondo nero, i titoli di coda.