Periscopio (globale)
I fantasmi di Sábato
Comunista critico, una carriera da fisico, carattere schivo e ombroso e tre romanzi formidabili: ecco il ritratto di Ernesto Sábato, narratore argentino isolato che ha saputo raccontare i dilemmi esistenziali in cui si dibatte l’animo umano
A volte bastano tre romanzi per garantirsi l’interesse e l’omaggio dei posteri. Nel caso di Ernesto Sábato, morto quasi centenario nella sua casa del sobborgo bonaerense di Santos Lugares dieci anni fa, il 30 aprile 2011, il corpus è costituito, oltre che da un libro di memorie (Antes del fin) e qualche saggio, da appena tre prove narrative, appunto, El túnel (Il tunnel), Sobre héroes y tumbas (Sopra eroi e tombe) e Abaddón el exterminador (L’angelo dell’abisso). Scritti in un lasso di tempo piuttosto lungo, tra il 1948 e il 1974, questi romanzi ci appaiono ciò nonostante coerenti e perfettamente integrati fra loro, come se Sábato avesse previsto a priori la loro genesi e le peculiarità dell’intera sua opera narrativa su un arco appunto di quasi trent’anni. Perché in fondo non fa altro che scrivere di se stesso, dei suoi fantasmi e delle sue ossessioni, inventando o almeno prefigurando quel genere che oggi, con un termine alla moda, chiamiamo autofiction, ma che in letteratura ha sempre funzionato e offerto dividendi all’autore, a condizione che non si riduca a un’osservazione del proprio ombelico o a una sterile lamentazione.
Nato a Rojas, nella provincia di Buenos Aires, da una famiglia di origine calabrese, decimo di undici figli, in gioventù Sábato è un attivista comunista, ma l’idillio con quell’ideologia finisce quando nel 1934 i compagni di partito, preoccupati del suo spirito critico, lo inviano in Russia affinché sia “rieducato”; Sábato ne ritornerà esterrefatto e sconvolto dallo stalinismo. In seguito appare destinato a una brillante carriera come fisico, disciplina in cui ottiene laurea e dottorato, tanto che nel 1937 è chiamato a lavorare all’Istituto Curie di Parigi e nel 1940 ottiene la cattedra di meccanica quantistica all’Università di La Plata. Sábato si rende conto, però, di aver sbagliato orientamento professionale: da una parte, compaiono i primi dubbi filosofici riguardo al primato della scienza, nelle sue applicazioni pratiche già troppo preda dei tecnocrati e divenuta, come scrive nel saggio Hombres y engranajes (1951), un “frígido y deshumanizado laberinto de símbolos”; dall’altra, va registrata la passione nascente per la letteratura e la pittura − a Parigi aveva frequentato i circoli surrealisti −, che lo fanno propendere fin dal 1945 per una vita diversa, incentrata sulla creazione letteraria e sulla frequentazione delle librerie e delle riviste. Prima fra tutte Sur, fondata e diretta da Silvina Ocampo, che raduna intorno a sé la gioventù progressista e antiperonista. E sarà proprio Sur a pubblicargli il primo romanzo, El túnel, dopo il rifiuto di tutti gli editori argentini ai quali Sábato si era rivolto.
In questo romanzo, al centro delle ossessioni del protagonista, il pittore Juan Pablo Castel, è la donna che amerà e che finirà per uccidere, ma non come conseguenza di un’attrazione fatale e non corrisposta o di un improvviso accesso d’ira. La questione è molto più profonda: María si rivela da un lato l’unica persona capace di comprenderlo, nella sua personalità e nella sua arte, e dall’altro, tuttavia, lo tradisce, non solo con il legittimo marito, ma anche con un altro amante, il cugino, svilendo in tal modo la loro unione e destituendola di senso. Con il suo assassinio, che nella mente alterata del pittore diventa una specie di atto dovuto, un destino già tracciato, il protagonista taglia ogni residuo legame con la società e finisce per ritrovarsi appunto nell’oscuro e claustrofobico tunnel del titolo, da cui non potrà mai più uscire. Lo stile, semplice e diretto, caratterizzato da un linguaggio colloquiale, dà conto della relativa noncuranza che accompagnerà sempre Sábato riguardo agli aspetti puramente stilistici del proprio scrivere. È probabilmente anche questa apparente facilità espressiva, oltre alla capacità di far scaturire nuovi accenti e significati da un tema così trito come la gelosia, a decretare il successo internazionale del romanzo, successo che, come all’epoca accadeva spesso, parte dalla Francia, dove Albert Camus s’innamora del romanzo e lo propone con una certa insistenza a Gallimard. Un altro grande estimatore di questa prima opera di Sábato è Graham Greene, il quale scrive di non poter certo dire di averla letto con piacere, ma sicuramente in uno stato di assoluta concentrazione. Detto fra parentesi, il 1948 è peraltro un anno particolarmente felice per la letteratura argentina, se si pensa che quasi in contemporanea usciranno altri due capolavori come Adán Buenosayres di Marechal e Zama di Di Benedetto: con quello sabatiano abbiamo quindi tre libri validissimi e totalmente diversi l’uno dall’altro, a testimonianza di un periodo di estrema vitalità creativa.
Nei romanzi successivi sprofondiamo nelle sabbie mobili della metafisica, che a Sábato sembra in ogni caso l’unico punto di vista capace di conciliare, come scriverà in un saggio, la dimensione psicologica con quella sociale. S’inserisce, anche con questa scelta, in una lunga tradizione, che prende le mosse dal Facundo di Sarmiento, uno dei testi più popolari, e fondanti, della letteratura argentina dell’Ottocento, per attraversare tanto il Martín Fierro di Hernández quanto Don Segundo Sombra di Güiraldes, fino al Juguete rabioso di Arlt, e creare un contesto in cui il concetto di solitudine, tanto geografica quanto storica, influisce notevolmente sul temperamento già di per sé meditativo dell’intellettuale, inducendolo a filosofeggiare sul senso della vita e sull’inutilità degli umani sforzi. Quando, in El escritor y sus fantasmas, Sábato sarà indotto a riflettere sulle proprie priorità e idiosincrasie come scrittore prima ancora che come uomo, giungerà alla conclusione che al di là di tutti i problemi familiari, economici, sociali e politici, alla base del romanzo come della vita debbono esserci “los problemas últimos de la existencia: la angustia, el deseo de poder, la perplejidad y el terror ante la muerte, el anhelo de absoluto y de eternidad, la rebeldía ante el absurdo de la existencia.” Se quindi in qualche misura, e anche sotto il profilo della contingenza storica, Sábato può essere senz’altro arruolato fra gli scrittori esistenzialisti, ma intendendo con questo l’ampio spettro che va da Dostoevskij a Camus a Sartre, il suo essere argentino, e per di più un socialista con sfumature fortemente anarchiche, gli garantisce una certa originalità. In particolare, gli consente di sfuggire alle secche di un razionalismo troppo riduttivo e di aprirsi invece a quella che considerava un’esperienza più integrale di fruizione della vita e della letteratura, in cui l’irrazionale non si trovi la porta sbarrata, ma possa essere sussunto in una visione più ampia. In questo senso, anche la morte del romanzo per Sábato è un’emerita sciocchezza, giacché anzi il romanzo ha permesso di approfondire i grandi enigmi etici e religiosi.
Sobre héroes y tumbas, del 1961, è completamente diverso, nella sua complessità strutturale, dal primo romanzo. Qui il protagonista è un diciannovenne, Martín Castillo, un artista ancora alle prime armi, che s’innamora della ricca Alejandra, esponente della classe sociale più elevata (e autoctona) che tiene le redini dell’economia nazionale. Il romanzo si sviluppa seguendo una conversazione ex post fra Martín un amico più maturo, Bruno, che a suo tempo era stato innamorato della madre di Alejandra, Georgina, ora in grado di testimoniare delle varie fasi del declino di una vita familiare che si farà presto tragica. Scopriamo infatti una relazione incestuosa fra Alejandra e il padre, Fernando Vidal Olmos, e si chiarisce ben presto l’epilogo cruento provocato proprio da Alejandra, che uccide il padre e si suicida dando fuoco alla casa; ma soprattutto veniamo a conoscenza − grazie a una sezione separata del romanzo intitolata “Rapporto sui ciechi” e narrata da Fernando − di una presunta missione di quest’ultimo che consisterebbe nel salvare il mondo da una setta di creature, i ciechi, appunto, che disporrebbero di poteri quasi soprannaturali e tenderebbero a controllare la società. Per le sue tematiche e per la profondità delle riflessioni, Sobre héroes y tumbas è il testo − un vero e proprio “romanzo totale”, molto in voga negli anni Sessanta − in cui più si avverte l’influenza di Dostoevskij, e, sebbene in modo meno marcato, anche di Kafka e Faulkner. L’ideale letterario verso cui Sábato tende è ancora una volta quello di una letteratura che affronti quelle che Gombrowicz, suo grande estimatore, definiva le sue fobie e allucinazioni, ma che sono poi in definitiva i dilemmi esistenziali in cui si dibatte l’animo umano. A tal fine Sábato non esita a servirsi di espedienti stilistici disparati, che tuttavia riconvergono verso una sostanziale unitarietà espressiva.
Alcuni dei personaggi del romanzo, primo fra tutti Bruno, ritornano anche in Abaddón el exterminador. Per molti versi simile al precedente e percorso dalle medesime inquietudini, Abaddón è forse per il lettore di oggi il libro apparentemente più vicino e attuale, proprio per il modo in cui Sábato gioca con se stesso come personaggio e con le proprie vicende biografiche in quanto elemento propulsore del plot, conseguendo così un notevole arricchimento della prospettiva e finendo persino per incontrare se stesso in un episodio di autoscopia. Né mancano ampie e interessanti digressioni di natura narratologica, in cui Sábato svela il proprio metodo e le proprie sollecitazioni espressive. (“Dio non scrive romanzi: questi nascono dalla nostra imperfezione, dal mondo difettoso in cui ci hanno obbligato a vivere.”) Ancora una volta, l’Argentina e in particolare Buenos Aires, il luogo dove il rituale di purificazione interiore dovrebbe avvenire, fa da cartina da tornasole; e nelle loro incessanti deambulazioni i personaggi sabatiani, che spesso sembrano sfuggire all’autore e rendersi quasi autonomi, vivono una duplice crisi: da un lato, quella dell’intera civiltà occidentale e dall’altro quella propria al loro ritrovarsi a vivere in un paese sterminato, dove la violenza − anche politica: è il periodo che precede immediatamente la presa del potere da parte dei militari − è parte integrante della realtà.
Sebbene negli anni della maturità l’impegno sociopolitico si sia stemperato, fra il 1983 e il 1984 Sábato presiede, su richiesta dell’allora presidente Alfonsín, la Conadep, commissione sui desaparecidos e sulle atrocità commesse, a partire dal famigerato e indimenticato 24 marzo 1976, dal regime di Videla. Il rapporto finale, dal titolo Nunca más, con Sábato come primo firmatario, sarà di sprone per un lento avvio delle procedure giudiziarie, mai del tutto concluse, nei confronti dei massimi esponenti del regime militare.
Sábato sarà anche il secondo argentino, naturalmente dopo Borges, a ottenere, nel 1984, il prestigioso premio Cervantes, una sorta di Nobel della letteratura in lingua spagnola. Il che non lo renderà più malleabile o meno orgoglioso: si racconta di una sua terribile lite con Carlos Fuentes, che aveva osato nominare quella che secondo lui era la triade dei grandi scrittori argentini, ovvero Borges, Cortázar e Sábato, ma mettendolo per ultimo e dovendo poi ricorrere all’ordine alfabetico quale giustificazione inattaccabile.
Un capitolo a parte meriterebbe il rapporto di amore-odio, di ammirazione-esecrazione, che lo ha sempre legato a Borges, il quale compare anche come personaggio in Sobre héroes y tumbas, dando a Sábato l’occasione di parlarne in termini non proprio encomiastici. Bruno e Martín, infatti, lo incontrano per strada, e Bruno, nel romanzo vero e proprio alter ego di Sábato, ammette che la sua prosa è fra le migliori che vengano scritte in spagnolo, ma lo giudica al tempo stesso un preciosista, troppo innamorato dello stile e della propria scrittura per poter essere davvero un grande scrittore. Per Sábato, sempre più vicino al magistero di un Arlt che a quello di un Borges, è del resto decadente qualunque letteratura che preferisca soffermarsi sulla modalità e sull’espressione, piuttosto che sull’oggetto della narrazione. Sebbene un tempo amici, soprattutto ai tempi della comune frequentazione di Sur, per una lunga porzione della loro vita i due, divisi da troppe cose (concezione del fare letterario, politica, polemiche rinfocolate da questo o quel letterato), non si parlano affatto. Ragion per cui il loro incontro-ravvicinamento del 1975, seguito da varie altre occasioni di dialogo, farà notizia, sebbene dai vari colloqui, subito trascritti con acribìa, non emergano forse, a essere sinceri, grandi perle di saggezza. È interessante tuttavia rilevare come in età avanzata entrambi concordino su diversi argomenti, applicando anche una certa dose di modestia ai relativi successi conseguiti, se messi a confronto con le opere maestre della letteratura argentina.
Non perde comunque l’occasione, Sábato, a questo proposito, di dare una sua interpretazione del Martín Fierro che potrebbe applicarsi, mutatis mutandis, anche alla sua opera: per lui, la ribellione dell’eroe di Hernández esprime ancora una volta i grandi problemi spirituali dell’essere umano. Ed elenca: solitudine, morte, ingiustizia, speranza e tempo. Rivendica anche, come già nelle sue opere, l’importanza del sogno, che permette all’uomo di liberarsi delle proprie tensioni (e parallelamente dell’incubo come premonizione dell’inferno che ci attende), proprio come l’arte rappresenterebbe una valvola di sfogo per la comunità e le consentirebbe di evitare la follia collettiva. Sábato resta insomma fedele alle sue ossessioni fino alla fine. Nei Quaderni di Lanzarote José Saramago racconta di una sua visita a Santos Lugares, residenza storica dello scrittore, come di una specie di discesa agli inferi, in una casa ovattata e resa imperscrutabile da un’oscurità quasi assoluta, con un ospite che per tutta la visita non si toglie mai dal viso gli occhiali scuri. Dapprima la conversazione non può che vertere sui ciechi, quelli di Sobre héroes y tumbas e quelli del Saggio sulla cecità di Saramago, ma in seguito Sábato si lancia in un lungo soliloquio che riprende gli assilli di sempre, dai dubbi sulla conoscenza scientifica e sul progresso alle diverse declinazioni del male assoluto. “Come se gli fosse impossibile sfuggire al proprio labirinto,” commenta testualmente Saramago. Perché in un labirinto come quello in cui si era irretito Sábato, forse, non è mai possibile trovare il filo d’Arianna e districarsi del tutto.