Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Essere razzista

Il processo a Derek Chauvin, il poliziotto che il 25 maggio 2020 uccise senza alcuna ragione George Floyd, ha rivelato una serie di particolari inquietanti sia sui modi consueti delle forze dell'ordine negli Usa sia sulla diffusione di "normali" comportamenti razzisti

Durante il processo a Derek Chauvin – il poliziotto che a Minneapolis, in Minnesota, ha giustiziato en plain air il 25 maggio 2020 George Floyd, 46enne uomo di colore, tenendogli un ginocchio premuto sul collo per nove-minuti-e-ventisei-secondi, soffocandolo – si sono succedute numerose testimonianze di persone diverse: passanti, pompieri, paramedici. Tra di esse ce ne sono state alcune particolarmente toccanti come quella di una teenager che, piangendo, ha rimpianto di non avere potuto fare di più per salvare un uomo a cui veniva soffiata via la vita. O quella di Charles McMillan che è scoppiato in un pianto dirotto quando ha rivisto il video dell’esecuzione di Floyd del quale ha ricordato che poco prima di smettere di respirare continuava a chiamare sua madre, mentre sul suo collo Chauvin manteneva premuto il ginocchio fino a dopo che il sempre più flebile alito della vita lo ha definitivamente abbandonato. O le parole, tra le lacrime, di Genevieve Hansen una vigilessa del fuoco con un training medico, che quel giorno fuori servizio passava per caso di lì e ha implorato i poliziotti presenti di intervenire per soccorrere Floyd perché stava morendo. È stata tenuta dagli altri tre poliziotti presenti con precisa e ferma determinazione lontano dalla vittima mentre esalava l’ultimo respiro. Anche le testimonianze successive hanno evidenziato l’incapacità di intervenire, il senso di impotenza, mentre un uomo senza dubbi e con l’autorità per farlo, ha lentamente giustiziato un suo simile. Floyd era ammanettato, sdraiato per terra assolutamente incapace di muoversi e di costituire una minaccia per chicchessia. Tantomeno per un poliziotto armato. “Ho assistito a una vera e propria esecuzione” ha detto Philonese Floyd, fratello di George.

I vari esperti che si sono alternati, quasi tutti ex poliziotti addetti al training degli officer hanno affermato che c’è stato un uso eccessivo e immotivato della forza in quella particolare situazione e che, specie quella manovra specifica, se protratta nel tempo mette in pericolo di vita colui che vi è sottoposto.  Infatti chiunque si trova con la faccia a terra con le braccia ammanettate dietro le spalle già respira male. Se poi gli si tiene premuto il collo questo va ancora di più a bloccare la respirazione. Ed è dunque pericoloso per la vita del malcapitato.

Il momento in cui Derek Chauvin uccide George Floyd

A questo si aggiunga che in America quando la polizia ferma un cittadino qualsiasi o gli ordina, se è in macchina, di accostarsi per un controllo, l’espressione pull over, pull over (sempre ripetuta almeno due volte) fa tremare qualsiasi persona a cui sia indirizzata. Non solo perché anche i poliziotti hanno paura che il fermato possa essere armato e dunque possono reagire con violenza, ma perché le procedure di controllo sono precise e ormai consolidate. Se sei in macchina devi mettere le mani in bella mostra sul volante e comunque in ogni caso obbedire alla lettera a quello che il poliziotto ti chiede di fare a cominciare dal sottostare alle perquisizioni corporali che sono comunque un’invasione della privacy di ogni individuo. Dunque nessun americano si sognerebbe nemmeno per idea di interrompere o avvicinarsi ad un poliziotto, mentre sta compiendo un arresto. Di qui le dichiarazioni del senso d’impotenza di tutti i vari testimoni che adesso si sentono in colpa per non avere potuto salvare la vita di un altro essere umano. Se poi sei nero è ancora peggio! Come nel caso di molti degli innocenti bystander che nel corso delle loro testimonianze, non sono riusciti a trattenere le loro emozioni. Se un qualsiasi cittadino ha paura della polizia in condizioni normali è inimmaginabile il terrore che ogni afroamericano prova quando incrocia le forze dell’ordine. Si arrende immediatamente per paura di essere arrestato per resistenza a pubblico ufficiale o addirittura ucciso. E questo ultimamente avviene spesso. Troppo spesso.

Basta ascoltare la testimonianza di qualsiasi persona di colore che ha subito un fermo o sente la voce di un poliziotto che gli chiede di accostare per capire la sensazione di panico che li pervade. Molti usano l’espressione “I freeze, I can’t move” (mi congelo, sono perfino incapace di muovermi).

Forse c’è da dire che nel training dei poliziotti ci sono molte cose da rivedere se questa è la sensazione che gli atteggiamenti delle forze dell’ordine provocano nei cittadini, specie in quelli di colore. Nel caso del poliziotto Derek Chauvin c’è qualcosa in più però. Una sorta di accanimento che va oltre. E che davvero spaventa oltre misura. Perché ha continuato a tenere il ginocchio premuto sul collo della sua vittima anche quando era già morta? Perché si è accanito contro un inerme essere umano incapace di reagire, anche dopo che alcuni passanti lo hanno implorato di salvarlo, quando ancora lo avrebbe potuto fare? Si sarebbe comportato allo stesso modo se il suo prigioniero fosse stato bianco? Cosa è passato per la sua testa in quei lunghi nove-minuti-e-ventisei-secondi durante i quali ha inesorabilmente giustiziato un innocente? Tutte queste domande ci danno un’immagine del poliziotto Derek Chauvin nei confronti del quale ci sono stati 18 reclami per comportamento violento e linguaggio dispregiativo (derogatory language) senza che abbia mai ricevuto nessun tipo di punizione. Non sono stati resi noti i motivi specifici dei reclami, ma è risaputo che è uomo dal temperamento aggressivo e dai modi brutali. Uno che ama essere in assoluto controllo delle situazioni e degli individui, uno che in servizio ferma le persone, le costringe ad uscire dalla macchina, obbligandole a entrare in quella della polizia per portarle al quartiere generale senza dare spiegazioni. Così ha raccontato Melissa Borton che dopo essere stata condotta a forza al comando di polizia è stata rilasciata senza una parola sui motivi che hanno determinato il suo arresto.

Ma la reputazione di persona violenta non riguarda solo la sua carriera in polizia, ma anche il suo comportamento precedente. Quando Derek Chauvin lavorava per il night club El Nuevo Rodeo, la proprietaria Maya Santamaria ricorda che “era facile agli scatti d’ira e reagiva in maniera assolutamente sproporzionata a qualunque tipo di provocazione”. La proprietaria ricorda inoltre che il suo comportamento cambiava in tempo record durante gli eventi organizzati dalla comunità nera durante i quali usava gli spray al peperoncino perfino sugli organizzatori.  “Le sue espressioni facciali, la sua attitudine, perfino la sua postura cambiava quando organizzavamo queste urban nights” ha dichiarato la donna il 9 giugno 2020 a Insider. Dunque un comportamento razzista passive-aggressive, cioè non dichiarato apertamente, ma non per questo meno discriminatorio e pericoloso, quello stesso che lo ha spinto a non sollevare il suo ginocchio dal collo di George Floyd neanche quando l’uomo stava esalando l’ultimo respiro. Un episodio degno dei linciaggi del Ku Klux Klan.

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