Cartolina dall'America
Colpevole!
Il verdetto che condanna tre volte Derek Chauvin, ritenuto colpevole di aver ucciso senza pietà George Floyd segna un punto di non ritorno nella giustizia Usa: la "verità" della polizia non è più intoccabile. Ma ora occorre una legge che cambi i comportamenti violenti
La condanna di Derek Chauvin, il poliziotto di Minneapolis che ha giustiziato alla luce del giorno e senza pietà George Floyd, ha segnato un momento di sollievo e di grande emozione non solo per tutti gli americani, ma per il mondo intero. La commozione è stata talmente grande che mi sono ritrovata a piangere come una bambina, senza riuscire a smettere, per una giustizia a lungo dovuta, troppe volte richiesta e mai onorata. Prova ne sono le altre numerose e ingiustificate uccisioni che dal maggio scorso, quando Floyd fu assassinato, si sono succedute da parte delle forze dell’ordine.
“Giustizia è stata fatta” ha affermato Darnella Frazier la diciassettenne che poco più di un anno fa, con il suo telefonino, rese testimonianza dell’omicidio di George Floyd, dopo il verdetto che ha ritenuto il poliziotto di Minneapolis colpevole. Chauvin doveva rispondere di omicidio di secondo grado, di omicidio di terzo grado e di omicidio preterintenzionale. D’altra parte, come mi ha fatto notare un mio caro amico americano, Terry, cosa ci si poteva aspettare da uno che ha lo stesso cognome di colui dal quale ha tratto origine il termine chauvinism (sciovinismo in italiano)? Nomen omen.
Le parole “Guilty, guilty, guilty” ripetute tre volte, per quanti erano i capi di imputazione di cui il poliziotto è stato ritenuto colpevole da una giuria di undici persone, oltreché dal giudice, sono state pronunciate quasi come uno slogan, da tutti coloro che erano fuori del tribunale ad attendere il verdetto. Tra di essi molti componenti del movimento Black Lives Matter che tanto in quest’ultimo anno ha fatto per mobilitare il paese a livello nazionale contro le continue brutalità della polizia. Che si sono ripetute anche in questi ultimi giorni, falcidiando le vite di giovani teenager di colore. Questo movimento si è battuto con grande forza a livello nazionale e internazionale per condannare il razzismo in America sia dentro forze dell’ordine che in ogni altro luogo di lavoro e in ogni istituzione.
Ma questa condanna segna, si spera, un punto di non ritorno; la consapevolezza che le cose devono cambiare. L’inizio di qualcosa di nuovo. Come anche il presidente Joe Biden, che ha ripetuto di nuovo tre volte la frase I can’t breath, I can’t breath, I can’t breath, implorata numerose volte da George Floyd prima di esalare l’ultimo respiro, ha promesso. Ha infatti affermato che questa frase non deve abbandonarci mai e deve costituire un monito che ci sprona a cambiare le cose. Ora. E come molti attivisti riuniti fuori del tribunale in attesa del verdetto, hanno reclamato, urlando dopo di esso: We can finally breath.
Tra di essi il fratello di George Floyd, Philonaise, uomo di parole misurate e intelligenti, mai piene di odio o di risentimento, che ha parlato, facendo emozionare tutti, di perdono e di come questa vicenda possa rappresentare un esempio di qualcosa che non dovrà più ripetersi. È davvero commovente come la maggior parte dei parenti di queste quasi tutte giovanissime vittime (e purtroppo ne ho osservate molte in questi anni) mostrino una pietas e una solidarietà umana, espresse sempre con grande dignità. E soprattutto come rivelino un’enorme capacita di perdonare. To Forgive is not to forget tuttavia, ha detto una delle tante madri delle tante vittime. Dunque le cose devono cambiare. Qualcosa che dovrebbe spingere ognuno di noi a combattere una causa, quella del razzismo, che finché esisterà, renderà la nostra appartenenza al genere umano mutilata. Perché pur nelle differenze storiche, culturali, razziali, di genere e di religione ne facciamo parte tutti in egual misura.
Ma, come molti giornalisti, politici e intellettuali hanno rilevato, oltre all’attiva partecipazione dei cittadini, c’è la necessità che il Congresso assuma su di sé il problema e faccia qualcosa per varare una riforma della polizia e delle leggi che ne regolano la formazione e i comportamenti. “Se il verdetto fosse stato diverso sarebbe stata una catastrofe” – ha affermato Van Jones, avvocato ed editorialista della CNN. “Le giovani generazioni, specie tra i neri, che hanno visto metodicamente respingere le istanze di giustizia in tutti questi anni – ha continuato l’avvocato – si sarebbero convinte che nel paese esiste una discriminazione profonda e insanabile che li rende cittadini di serie B e niente li avrebbe persuasi del contrario. Sarebbe stata un’istigazione alla violenza e alla sedizione: in ultima istanza li avrebbe spinti ad abbandonare la lotta e avrebbe spento qualunque desiderio di cambiamento”.
Senza Darnella Frazier sicuramente avrebbe prevalso la tesi fornita dalla polizia che aveva derubricato l’uccisione di Floyd, giustificando la chiamata dell’ambulanza semplicemente per “incidente medico durante un’interazione con la polizia”. L’andamento e il verdetto di questo processo, senza quel filmato, sarebbero stati diversi. Il rapporto della polizia affermava infatti che Floyd aveva resistito all’arresto e sembrava sotto l’influenza di sostanza stupefacenti. Questo in aggiunta ad altri problemi medici avrebbe causato il malessere che lo ha ucciso. Una falsità che senza il coraggio della giovane che ha ripreso i nove-minuti-e-ventisei-secondi durante i quali Chauvin ha tenuto premuto il suo ginocchio sul collo di George Floyd, sarebbe passata come versione ufficiale e il poliziotto sarebbe stato forse giustificato. Invece è uscito dall’aula ammanettato ed è stato condotto in prigione dove si spera rimarrà per lungo tempo.