Periscopio (globale)
Yates e il diavolo
Minimum Fax ripropone i "capolavori" di Richard Yates, uno scrittore americano che - forse - non è stato apprezzato ancora quanto meritava. Nei suoi romanzi il ritratto di una società addolorata e insoddisfatta, come rosa da un demone di autodistruzione
Qualche mese fa Minimum Fax ha riproposto in un unico cofanetto di oltre milleduecento pagine, con il titolo complessivo di Capolavori, quattro dei libri di Richard Yates che la stessa casa editrice ha dato alle stampe in questi ultimi anni: i romanzi Revolutionary Road e Easter Parade e le raccolte di racconti Undici solitudini e Bugiardi e innamorati. Per chi non li avesse mai letti, l’occasione di conoscere Yates attraverso quest’operazione di rilancio è naturalmente ghiotta, e importante; va detto subito, tuttavia, che altrettanto interessanti e godibili sono tutti gli altri libri di Yates editi a parte dal medesimo editore, trattandosi − diciamolo subito con chiarezza − di uno dei massimi scrittori statunitensi di una generazione, quella dei nati negli anni Venti, particolarmente fortunata (per fare solo qualche nome in ordine sparso: Capote, Simmons, Williams, Stern, Gaddis, Vonnegut, O’ Connor e Mailer).
Nato nel 1926 nei pressi di New York, Yates è abbastanza grande da fare in tempo, appena diciottenne, a combattere come soldato semplice in Francia, per essere poi spostato alla fine della guerra nella Germania occupata dagli alleati. Il ritorno in patria del reduce non è mai facile, e Yates non fa eccezione; nel dopoguerra trova lavoro, certo, lo cambia anzi piuttosto spesso (pubblicitario, docente universitario, sceneggiatore a Hollywood per film mai girati, ghost writer dei discorsi di Robert Kennedy, e così via), ma senza mai raggiungere quel successo e quella notorietà come scrittore che rincorrerà per tutta la vita. La considerazione critica e il rispetto dei colleghi, che aleggeranno intorno a lui fin dalle prime opere pubblicate, Revolutionary Road e Eleven Kinds of Loneliness, non saranno mai in grado di controbilanciare ai suoi occhi il relativo fallimento presso il grande pubblico, che gli impedirà fra l’altro l’accesso alle riviste più prestigiose e il fatto di poter prima o poi contare su una situazione finanziaria stabile. Alcolista, grande fumatore, perennemente insoddisfatto e irascibile, soggetto a lunghe fasi depressive, Yates avrà una vita matrimoniale e familiare rovinosa (tanto il primo quanto il secondo matrimonio naufragheranno presto, anche se dal secondo nascerà una figlia) e attraverserà numerosi periodi di assoluta solitudine.
Primo romanzo di Yates, uscito nel 1961, Revolutionary Road sembra per un attimo voler imporre il giovane scrittore all’attenzione del pubblico, riscattando anni di tentativi più o meno falliti di pubblicare qualche racconto su riviste di primo piano come il New Yorker. I critici lo ricoprono in effetti di lodi sperticate, da Tennessee Williams a John Updike tutti sembrano convinti dell’avvento di un nuovo cantore della piccola borghesia, un cantore disincantato e chirurgicamente preciso nella sua analisi. Recensendo Revolutionary Road, Updike scrive di essere rimasto colpito e soprattutto angosciato da un libro così “pieno di compassione, ben cesellato e claustrofobico”. Riscoperto da Hollywood nel 2008 grazie all’omonimo, fortunato film di Sam Mendes con Leonardo Di Caprio e un’ispiratissima Kate Winslet, il romanzo narra la storia semplice e lineare di una coppia-tipo dei primi anni Cinquanta, con due bambini perfetti e una casa perfetta nel Connecticut, che vive però una situazione d’insoddisfazione professionale, tensione matrimoniale e reciproci tradimenti, fino all’inevitabile scioglimento tragico, al quale Yates ci conduce tuttavia senza alcuna concessione al sentimentalismo e anzi trattando il proprio materiale narrativo con una certa freddezza. Come ricordava Richard Ford riferendosi anche a se stesso, è il romanzo di Yates che più ha influenzato le successive generazioni di scrittori americani.
I racconti di Eleven Kinds of Loneliness (Undici solitudini) rappresentano gli esordi di Yates e contengono in nuce, ma già perfettamente formati, molti dei motivi che ritroveremo nelle opere successive. La solida formazione hemingwayana e soprattutto fitzgeraldiana è qui del tutto evidente, e vincente. La solitudine del titolo è certamente quella dei protagonisti degli undici racconti, ma è anche e soprattutto la sua, quella dello scrittore che già nei primi anni Cinquanta − gli anni ai quali va ascritta la stesura di questi racconti, usciti poi nel 1962 − ha alle spalle una serie di esperienze, a cominciare ovviamente dalla guerra e dalle difficoltà del primo matrimonio, che lo porteranno a sprofondare sempre più in una sorta di immedicabile disillusione. Ed è una solitudine, quella descritta nel libro, che scaturisce non da fatti esterni inopinati e drammatici, come potrebbe essere appunto la guerra, ma al contrario dalla piattezza della normalità, e dunque direttamente dal conformismo dell’american way of life, di quel sogno di benessere per tutti, e di relativo ottundimento dei sensi e dell’intelligenza, che la borghesia americana proietta in particolare nei sobborghi metropolitani che va a colonizzare. La spietatezza di Yates, già in queste prime prove, sta nel negare ai suoi personaggi qualunque salvezza a lungo termine; i loro moti di rivolta, e perfino i loro desideri, sono destinati ad annacquarsi in un flusso indistinto e indifferente che riguarda e coinvolge tutti i viventi e nel quale ciascuno di loro, con le sue predilezioni e avversioni, è condannato all’insignificanza e al fallimento.
Easter Parade, il più acclamato dai critici, è cronologicamente centrale nella produzione di Yates. È il suo quarto romanzo (su sette), pubblicato nel 1976, e conferma pienamente le dinamiche narrative che presiedono ai racconti, con in più una dimensione autobiografica che qui emerge con maggiore chiarezza. (Ma fin dalla solida biografia dal titolo A Tragic Honesty, che nel 2003 gli ha dedicato Blake Bailey, uno specialista del genere che ha al suo attivo anche la narrazione delle vite di John Cheever, Charles Jackson e Philip Roth − l’uscita di quest’ultima è prevista nel prossimo aprile −, sappiamo che l’elemento autobiografico è presente e insopprimibile in tutti i testi pubblicati da Yates.) L’infelicità familiare, tema che da Tolstoj in poi è ineludibile, ma che in Yates si tramuta in una specie di fissazione creativa e creatrice, è qui posta al centro dell’attenzione con la consueta, e apparentemente imperturbabile, inesorabilità. Lo stile è quasi piatto, senza fioriture, senza alcuna pretenziosità: un altro romanziere che lo amava molto (ancora una volta, dunque, un collega), Richard Price, ha parlato di una prosa “agile e miracolosamente senza peso”. Nella storia delle due sorelle, Sarah ed Emily, che s’incamminano su strade molto diverse − sposata e casalinga l’una, senza figli e single l’altra, costretta a una claustrofobica vita di campagna l’una e a una (altrettanto) claustrofobica vita in città l’altra −, ma poi si ritrovano a fare i conti con un’analoga insoddisfazione, Yates mette in scena tutta la propria disperazione per un mondo in cui l’individuo è condannato all’infelicità. Un’infelicità forse con desideri (al contrario del titolo del famoso romanzo di Handke), ma senza scampo e senza rimedio, fatto salvo qualche momento lenitivo di autoillusione che funziona da calmante temporaneo.
I sette racconti di Liars in Love (Bugiardi e innamorati), raccolta uscita nel 1978, sono ancora più eloquenti: i loro protagonisti sono indefettibilmente votati alla catastrofe, sia nel senso comune, sia in quello etimologico, ovvero quella porzione risolutiva nella vita dei personaggi e nelle loro vicende che porta a uno stravolgimento. Nella maggior parte dei casi, se non in tutti, in questi racconti non succede nulla di repentino o d’inaspettato: la catastrofe è semmai la conseguenza finale di un insieme di fattori, materiali o spirituali, che congiurano a determinare il destino dei personaggi. Che sono tutti infelici, ovviamente, perché tutti intenti a desiderare qualcosa che è al di fuori della loro portata e che, lo capiamo subito, sfuggirà loro in eterno. La vulnerabilità dei personaggi − e qui ci sarebbe da ricordare in particolare quella delle diverse madri, nelle quali non è difficile scorgere l’immagine neanche troppo dissimulata di Dookie, la madre psichicamente fragile dello scrittore − non può che condurre all’autoillusione e alla mistificazione della realtà. La qualifica di bugiardi attribuita ai personaggi già nel titolo complessivo del volume è una metafora per indicare la formalizzazione di rapporti e legami umani sempre più vuoti e insoddisfacenti. Qui siamo ai livelli dei magistrali racconti di Salinger e Cheever, con cui Yates entra in un’ideale, e per noi lettori salutare, competizione.
Come scrivevo all’inizio, di Yates andrebbero ricordati molti altri libri, meritoriamente pubblicati da Minimum Fax e tutti, senza eccezione, improntati a una tecnica narrativa prodigiosa. Voglio citarne qui solo un altro: il romanzo Disturbing the Peace (Disturbo della quiete pubblica), del 1975, meno acclamato degli altri, che precede Easter Parade e che a me sembra un lavoro possente e terribile nella sua franchezza, che era poi la cifra peculiare dello Yates scrittore; un autore che non cerca mai di conquistare il lettore con espedienti sdolcinati, ma lo assale con un ritmo narrativo inesorabile, e la cui rabbia non è mai dissimulata dietro il mestiere, ma è resa onestamente evidente. È la storia di un uomo che non sopporta più la propria vita, soprattutto quella familiare, ed esprime il proprio disagio in modo manifesto, perfino con brutalità. È il manifesto, se si vuole, di quella che Stewart O’Nan, riferendosi appunto alla narrativa di Yates, chiamava “la tristezza secolare della vita domestica”, sottolineando come in essa non vi sia alcun modo di attutire i colpi che la realtà ci infligge. Al pari di quanto accade nei romanzi dei grandi scrittori della generazione precedente (si pensi a Malcolm Lowry e Charles Jackson), o nella narrativa dell’anagraficamente e geograficamente più vicino Cheever, l’altro grande cronista dei sobborgh e anzi il primo dei suburbanites, l’alcolismo riveste qui un’importanza e una centralità che in altre opere di Yates resta invece più sfumata, creando intorno al personaggio un alone romantico e consolatorio che è però falso e si dissolve subito, lasciandolo impietosamente al proprio calvario. Nei personaggi di Yates, peraltro, può esserci improntitudine e autocommiserazione, ma mai sentimentalismo e compiacimento. La pietà che l’autore prova per loro non è abbastanza forte da poterne mutare il destino, di fronte al quale tanto lo scrittore quanto i suoi lettori restano semplici spettatori di una tragedia annunciata.
Yates muore nel 1992, ad appena sessantasei anni, fiaccato dall’enfisema cronico dovuto ai due pacchetti di sigarette quotidiani, che negli ultimi anni lo costringe ad accompagnarsi a una bombola d’ossigeno, ma anche dalla sempre abbondante ingestione di alcool e infine dalle complicazioni di un intervento apparentemente minore, un’ernia. Come a volerci ricordare, ancora una volta, che è proprio dalle cose di minor gravità che occorre guardarsi, perché è lì che il diavolo si cela.