A proposito de "La fragilità dei pesi"
Poesia sull’abisso
I versi di Alessandro Franci si muovono con passo lento e in qualche modo divagante, quello tipico del flâneur o dell’osservatore disincantato. Salvo fermarsi, all'improvviso, di fronte al crepaccio dell'umanità ferita
Il protagonista delle poesie di Alessandro Franci, che fanno parte della bella raccolta di versi La fragilità dei pesi, recentemente pubblicata da Società Editrice Fiorentina, avanza con passo lento e in qualche modo divagante, quello tipico del flâneur o dell’osservatore disincantato. Sia che i suoi passi si muovano all’esterno, a confronto con un paesaggio di cui spesso non è dato percepire l’insieme, ma che si manifesta per dettagli, per scarti improvvisi, sia che vaghino in ambiente chiuso, dove sono più evidenti le sedimentazioni temporali, in fondo la camminata non è diretta da nessuna parte, non è mossa dall’esigenza di raggiungere una meta, ma chi procede va solo per il gusto di andare, anzi forse, con maggiore precisione, per il gusto di guardare, di scoprire, o solo di coprire e di abbracciare con lo sguardo, che pure sembra posarsi casualmente sulle cose e sugli uomini. È così, con questa postura apparentemente disorientata, che l’occhio finisce per illuminare particolari e relazioni ai più invisibili.
La postura del viandante, spesso declinato al plurale in un noi che pare voglia includere proprio tutta l’umanità, è quella incerta di chi non vorrebbe sapere e invece è messo a dura prova, rallentato o deviato, dalle rivelazioni, dal manifestarsi dei contrasti e dall’esplodere della vita e del suo opposto anche nei “trascurabili fatti”, anche di fronte alla apparente fissità dell’esistenza: “è sasso di lava piombato dai vulcani in / questo andarsene e venire con il flusso / lento, da controcorrente come salmoni, / risalendo le ragioni e i trascurabili fatti, / a seguire tappe di pietrificati istanti / sull’asse che collega / il primo dei passi all’orlo dei crepacci, / dei pozzi, delle tane da poco abbandonate”.
Su questo asse, che collega la necessità di avanzare con l’inevitabilità del crepaccio (che è qualcosa di più di un crepaccio e tanto fa pensare all’abisso orrido, immenso evocato dalle riflessioni del leopardiano pastore errante), si muove con grande senso della misura, nella scansione dei versi e in quella del pensiero, la poesia di Alessandro Franci, che è poesia che non pone domande e nemmeno accetta soluzioni, che sembra solo prendere atto, e in questo modo ci pone senza possibilità di scelta dinanzi a noi stessi, alla nostra condizione appunto di erranti. Scrive Caterina Verbaro nelle attente pagine introduttive, la lingua di Franci è “sobria, scevra di preziosismi, ma anche densa e semanticamente sapiente”, e il suo discorso “procede per giustapposizioni di elementi e di caratteri, per improvvise illuminazioni e svolte”.
La continua osservazione dei dettagli (non siamo del resto capaci solo di focalizzare lo sguardo sul nostro mondo minimo, sfuggendoci, per ovvie ragioni, la possibilità di cogliere l’insieme?), amplificando i particolari e proprio per questo rendendoli mostruosi, e perciò meravigliosi, ci fa percepire l’esatta dimensione della pericolosità del nostro stato, che è poi quello, fatalmente, che ci porta a procedere e proprio per questo ad allontanarci dalla eventualità di raggiungere una qualche risposta: “Cammino per queste strade / che rivedo, che gli anni hanno leso / con crepe e squarci sopra i muri / e ora tutto sembra uguale / anche se la vita non raggiunge più / quello che prima era solo lontano”.
Nel mondo scrupolosamente osservato da Franci il tempo si preoccupa di creare legami e contrasti, un disordine che si può solo accettare, che si è sedimentato ed è diventato realtà, anche perché forse nessun ordine è possibile, se non quello che nasce dallo scompiglio casuale. Ne fanno fede gli oggetti ritrovati, dimenticati da chissà quando, che sembrano aver acquisito, nel loro fortuito disporsi una appropriata dimensione: “La gabbia, scrigno di lacere suture / e fibbie lucenti, le mensole di legno, / ancora le pastiglie Valda nella scatola / di latta, spezie friabili sparse ovunque / in luoghi di torpore e tortura; // (…) // Ci si allontana attenti a non scalfire / una quiete in equilibrio sui silenzi in un / poco che tormenta, che vive altrove / nascosto come preda designata”.
Del resto basta poco, “una luce che tradisca”, e i tarli sulla cornice dello specchio tornano ad essere visibili, “i forse diventano infiniti” e “la distanza è riproposta”. Allo stesso modo è la luce, quando ancora si sofferma, quasi a voler sincerarsi della tenuta dell’esistente, che “fruga la fragilità dei pesi, i punti di rottura”. Al contrario quando avviene “l’abbandono di ogni causa a notte fonda” ed “entriamo nella periferia dei bisbigli” allora, per ossimorico palesamento, il buio “vela le cose con rara / precisione”: è solo così che è possibile vedere “la traiettoria precisa dei tracciati”, solo ora vale la pena incamminarsi “ascoltando i nostri passi (…) riguadagnando / il nulla finalmente, unica vera meta”.
Alessandro Franci, che è nato a Firenze nel 1954, ha al suo attivo alcuni libri di versi e di prose, in buona parte pubblicati dalle edizioni Gazebo, da sempre dirette da Mariella Bettarini e dalla compianta Gabriella Maleti. La collaborazione con la Bettarini è resa evidente anche dalla partecipazione, in qualità di redattore, alla meritoria attività della rivista L’area di Broca (un tempo Salvo Imprevisti), da diversi decenni presenza storica e significativamente, dichiaratamente militante nel panorama culturale italiano.