Ancora sul "Sorcio"
Parole dalla deformità
La nuova versione del romanzo di Andrea Carraro è ancora più affine a questo nostro tempo in cui la vita, inevitabilmente, ci chiede di fare delle scelte decise. Altrimenti si rimane schiacciati tra essere e non essere
C’è una perversa somiglianza fra il Sorcio e Nicolò, protagonista del romanzo Il sorcio di Andrea Carraro (riproposto da Elliot in una nuova edizione, clicca qui per leggere la recensione di Paolo Vanacore). Il Sorcio (soprannome datogli e che accetta volentieri), nell’ambiente lavorativo della banca dove opera, spadroneggia e “volgareggia”, aguzzino e persecutore, in particolare nei confronti di Nicolò, che sta alla banca come una corda all’impiccato.
Nicolò è anche uno scrittore, anche piuttosto noto, con una famiglia, sua moglie Stella e un figlio.
Quanto al Sorcio non perde occasione per umiliarlo, provocandolo anche in modo pesante di fronte ai colleghi, che impauriti a loro volta, abbozzano per non cadere anch’essi nelle grinfie dell’energumeno.
Ma il tema dominante del romanzo, secondo me, è l’affinità discordante fra il Sorcio e Nicolò. Una sorta di sindrome di Norimberga che non si realizza solo perché l’uno è tracotante e ignorante, l’altro invece colto ma pusillanime. Un matrimonio che se si fosse consumato avrebbe dato vita a una specie di mostruoso Frankenstein, ottima cavia da esplorare in tutte manifestazioni di debolezza e perversione.
Ecco allora che Carraro getta fra i due un ponte, uno psicanalista (che si rivelerà anch’egli per quello che davvero è), che per Nicolò è la curva melodica della voce interiore per raccontare la sua vita sul classico lettino dove sfoga le sue ansie, fra passato e presente, per esplorare i prodromi delle sue paure, in particolare la vigliaccheria.
Da quella voce entra in campo un altro tema caro a Carraro: l’amicizia. Amicizia che percorre l’intera vita di Nicolò, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’oggi. Sentimento così forte che rasenta i meccanismi del branco, e di un teppismo che potrebbe degenerare, ma che invece rimane sospeso qualche volta nel grottesco, o per rinunce morali, o anche qui per incapacità di arrivare fino in fondo. Insomma una sorta di banalità del male che non supera lo scherzo, sia pure, in qualche caso pericoloso, fra ingegno e stupidità.
Carraro apre uno scenario sulla sua città Roma. I quartieri dove il perbenismo e la truce lingua della violenza si incrociano, ma al contempo pone l’interrogativo filosofico sulla complessità della vigliaccheria. Tasto delicato, dove la scelta è scelta d’inerzia se non di omertà. Problema etico e morale non da poco.
Inoltre se è vero che, come dice Georges Bernanos, «le più grandi canagliate della storia non sono state commesse dalle più grandi canaglie, ma dai vigliacchi e dagli incapaci», ecco allora che il destino del Sorcio e di Nicolò convergono verso lo stesso medesimo punto. L’incapacità di accettarsi per quello che veramente sono.
Il fallimento vale per entrambi.
La vita prima o poi chiede di scegliere, altrimenti si rimane schiacciati tra essere e non essere. I due antagonisti rinunciano a vivere pienamente la loro deformità, lo stato umano che seppure deturpato darebbe a entrambi la piena identità.
Carraro è uno scrittore di grande talento. Uno dei migliori in Italia. Egli forma con l’argilla i suoi personaggi senza sottrarsi, dandogli vita con parole “vere” (maestro nel dialogo diretto). Nello spostamento dei linguaggi a ciascuna dà la sua voce, li vediamo agire, crescere a poco a poco nel loro ruolo al servizio della trama.
La scrittura contemporanea non ha più capacità di dare vita a personaggi che restino sotto la pelle del lettore. Assistiamo troppo spesso a specchi autoreferenziali, certo colti e riccamente illustrati, ma poco appassionanti, privi del gesto scenico di cui necessita la grande letteratura.
Dunque, per concludere, il Sorcio è anche un posto dove riflettere su se stessi e sulla narrativa al tempo del covid.
Accanto al titolo: Dirck Jacobsz, Ritratto di dottore, XVI secolo.