Viaggio nella Commedia/6
Dante e l’arte
Nel Canto XI del Purgatorio Dante, trattando il peccato della superbia, si intrattiene con Oderisi Da Gubbio per analizzare il rapporto che c'è tra arte e gloria, tra ispirazione creativa e bramosia di successo
La superbia è un peccato che, insieme con l’invidia e l’ira, rappresenta uno dei tre modi per cui l’amore, che dovrebbe essere indirizzato verso il bene supremo, può essere rivolto, invece, verso il male. Come spiega Dante, per bocca di Virgilio nel XVII canto del Purgatorio, il superbo non solo aspira a eccellere (e tale aspirazione è compatibile quale amore del bene proprio), ma per tale brama è disposto ad abbassare il prossimo, non riconoscendogli il valore che dovrebbe. In tale accezione lo accoglie come peccato Dante, tentando di mettere insieme gli insegnamenti della patristica (i sette peccati capitali) con la teoria aristotelico-tomistica dell’amore come fonte di ogni azione umana, buona o malvagia che sia. Agostino e Tommaso restano gli autori privilegiati della concezione dantesca: Tommaso, nella Summa, cita Agostino per definire la superbia “appetitus perversae celsitudinis” e insieme con lui Gregorio Magno nei Moralia (“vitiorum regina superbia”), il quale, a sua volta, si fondava sulla scrittura: “Initium omnis peccati est superbia”.
La cultura fiorentina dell’epoca di Dante aveva recepito tali stimoli con Brunetto Latini (Tesoretto), Bono Giamboni (Libro de’ vizi e delle virtudi) e una ben nota serie di manuali scolastici. Per tale via, certo sollecitato da una conoscenza non superficiale dell’aristotelismo tomistico, Dante si rifaceva a nozioni vulgate, accogliendo anche, tuttavia, la sottile distinzione, di derivazione scolastica, fra superbia completa (implica la diretta ribellione all’ordine divino) e superbia imperfetta (indiretta ribellione a Dio che si manifestava in una eccessiva brama verso i beni finiti).
Il Canto XI del Purgatorio (nel quale vibrano segrete e dissimulate vibrazioni autobiografiche), un Canto che Jacques Le Goff confessa essere tra i suoi preferiti per come vi si tratteggia la vanità della condizione umana, può essere suddiviso, inizialmente, in due parti distinte: la prima, in 24 versi, è costituita dallo splendido coro delle anime purganti che intonano il Pater noster. La seconda, in 12 versi, è una piccola chiosa che sospinge nella realtà del mondo traviato la sublime forza di una preghiera che la poesia di Dante riscatta dalla ripetitività generosamente volta verso gli altri, secondo il consueto, e sottolinea nel suo afflato francescano e nell’ardua indicazione agonistica (la lotta col Maligno di derivazione agostiniana).
Bisogna sottolineare, prima di procedere che, innanzitutto, il Padre Nostro è il più completo riepilogo della predicazione messianica di Cristo, come credeva Agostino, il quale rimarcava ancora come la stessa preghiera richiedesse la forza di un desiderio di vita eterna da proclamare col cuore e non con la voce. La preghiera, in Dante, acquista significato ancor più ampio perché è recitata dai “superbi”, da coloro che non si guardarono intorno se non con spirito di conflitto e di supremazia sugli altri e ora, invece, presi nel pathos purgatoriale, affidano proprio a quanti verranno il bene prezioso legato al loro traviamento in vita. In Dante rimane certo evidente l’impalcatura della filosofia aristotelica, filtrata dai commenti di Tommaso d’Aquino, ma viene anche rivalutato il peso del platonismo medievale, della tradizione agostiniana, del pensiero simbolico e allegorico, della teologia mistica. Dopo la morte di Beatrice, sappiamo che Dante, nel convento francescano di Santa Croce, entra in contatto con le tendenze mistiche platoniche, mentre nell’ambiente conventuale domenicano di Santa Maria Novella incontra l’aristotelismo tomistico e a Bologna potrebbe essere entrato in rapporti con esponenti dell’altro versante dell’aristotelismo, quello radicale o averroistico.
Finito il coro ovvero la trasformazione del Pater Noster in atto di contrizione orientato in senso terapeutico, Dante indugia sull’angosciosa pena fisica (simile a un incubo) che opprime quelle anime che purgano se stesse ma anche i loro fratelli rimasti nella “caligine del mondo” e si chiede se chi è rimasto sulla terra e sia in grazia di Dio possa in qualche modo ricambiare, con preghiere, messe o elemosine in suffragio, il bene che proviene loro da quelle anime purganti e dal loro corale Pater Noster. E a tale proposito si collega l’augurio di Virgilio (auspica che la giustizia divina e l’umana compassione possano sostenere l’itinerario penitenziale delle anime dei superbi) che introduce l’incontro con l’anima del ghibellino Omberto Aldobrandeschi che occupa la parte centrale del Canto (vv. 49-72), cui seguirà il colloquio, incentrato sull’arte e sulla cultura, con Oderisi da Gubbio (vv. 78-142) che si distende fino alla chiusura del Canto.
Come accadrà poi con Oderisi da Gubbio, le anime purganti in questo XI Canto recano significative tracce, nel loro stesso parlare, del peccato che stanno espiando. Così Omberto, figlio di Guglielmo, conte di Soana, spirito non “infernale”, ma “espiante”, vanta la sua discendenza dal “grande” Guglielmo, ma subito, nel verso successivo, avverte il bisogno di attenuare l’eccessivo risalto della stirpe da cui discende. Eppure, nonostante le parole di Omberto vogliano attestare il suo pentimento nei confronti del peccato di superbia, tutto il suo dire risuona ancora un po’ dell’antica iattanza, soprattutto nell’uso sapiente dell’aggettivazione (gran Tosco, antico sangue, opera leggiadra) che, in qualche modo, attenua la pur dichiarata e patita coscienza dell’uguaglianza umana, smisuratamente negata dalla tracotanza arrogante della sua vita e delle sue azioni. La reazione di Dante alle parole di Omberto Aldobrandeschi è significativa ed è letta da molti interpreti come contrizione e personale partecipazione al peccato di superbia evidenziato da Omberto Aldobrandeschi. Dante abbassa verso terra il volto, suscitando così la reazione di un’altra anima che, pure oppressa dal masso che la schiacciava, si storce per poter guardare il vivo e lo riconosce e ne invoca la reazione e il saluto. E anche qui il dire di Dante non può celare l’umana ammirazione per un artista, Oderisi da Gubbio, che si è reso celebre per la sua attività di miniaturista, seguace, forse, della corrente francesizzante, donde il richiamo di Dante a Parigi.
La risposta di Oderisi a Dante occupa i vv. 82-142, suddivisa in riprese che coinvolgono anche altre anime purganti (Provenzano Salvani). La prima parte dell’intervento testimoniale di Oderisi contiene una dichiarazione di umiltà, come si conviene a uno spirito che patisce il peso del suo peccato. Il rilievo artistico che Dante ha appena riconosciuto alle capacità artistiche di Oderisi è da questi trasferito all’opera di Franco Bolognese: a quest’ultimo spetta compiutamente quell’eccellenza che solo in parte minima Oderisi riconosce ora a se stesso. Ora, dicevo, perché in vita, come afferma con onestà intellettuale lo stesso eugubino, difficilmente Oderisi avrebbe lasciato fama a un altro artista operante nel suo stesso settore artistico. In ogni modo, Oderisi riconosce che il desiderio dell’eccellenza è stato il suo peccato di superbia da cui si è salvato mentre era ancora in vita, meritandosi così la cornice del Purgatorio.
A questo punto il tono sale e si fa alto e predicatorio, biblicamente sentenzioso e solenne e Oderisi si spinge a censurare l’amor di gloria e di fama dell’ingegno umano: poco dura quel desiderio di eccellenza artistica a meno che non sopravvengano epoche di decadenza che prolunghino la durata di quella fama. Poi tornano gli esempi vicini alla sensibilità artistica di Oderisi e di Dante, Cimabue e l’avvento di Giotto, Guido Cavalcanti che ha tolto a Guido Guinizelli il primato della poesia e poi una criptica allusione a qualcuno che, nel campo della poesia, oscurerà Cavalcanti e Guinizelli, forse un’autocitazione dantesca o piuttosto una conferma implicita di quanto Dante si senta coinvolto nel purgarsi dal peccato della superbia: dunque un atto di consapevole contrizione innescato dalla meditazione sulla vanagloria terrena nei confronti dell’eterno, la fama non è che un fiato di vento che ora solleva un nome e ora ne solleva un altro, condannando il primo all’oblio.
E qui Oderisi introduce, senza manifestarne il nome, la terza testimonianza del Canto, l’anima di Provenzano Salvani, uomo pubblico ghibellino la cui fama era diffusa in tutta la Toscana mentre era in vita e ora a malapena sussurrata nella Siena di cui era il padrone all’epoca in cui venne sconfitta la potenza di Firenze. Pur se Oderisi non rivela il nome di quell’uomo, Dante non manca di offrire ancora un saggio della sua polemica antifiorentina segnalando come un tempo Firenze sia stata considerata “arrogante” mentre ora le spetta solo il titolo di “corrotta”. Il corollario seguente non fa che ribadire il carattere effimero della fama con una metafora scritturale attinta da Isaia, suscitando però ancora un intervento importante di Dante: il poeta riconosce che gli esempi di Oderisi suscitano in lui la dovuta reazione di umiltà, attenuando la naturale predisposizione alla superbia, ma chiede al miniaturista eugubino di rivelare il nome di quell’anima. La risposta di Oderisi nomina Provenzano Salvani e ne sottolinea la smodata ambizione di impadronirsi dell’intera città di Siena: ora, nella cornice dei superbi, sconta la pena di aver coltivato ambizioni eccessive nella vita terrena. Dante, sollecitato dal nome di Provenzano Salvani, manifesta un dubbio: come mai l’anima di Provenzano, pentitosi in fin di vita e senza che nessuno nel mondo abbia effettuato intercessioni in suo favore, secondo quanto Dante sa di lui, si trova nella cornice espiante e non nell’Antipurgatorio come dovrebbe.
La domanda di Dante è finalizzata a mettere in rilievo l’exemplum vincente della umiltà di Provenzano, il gesto che gli ha meritato la misericordia divina ed è questo l’aspetto dell’intervento di Oderisi che chiude significativamente il Canto. L’artista eugubino riporta un episodio della vita di Provenzano Salvani successivo alla battaglia di Tagliacozzo (1268), quando il ghibellino senese, per riscattare un amico prigioniero dell’odiato Carlo d’Angiò, si pose a sedere su un tappeto nella piazza di Siena per raccogliere i 10.000 fiorini d’oro necessari, ricorrendo umilmente all’aiuto di tutti. Tuttavia, il genio poetico di Dante non poteva immaginare un finale di Canto soltanto in chiave di exemplum narrativo: così le ultime parole di Oderisi suonano oscure e minacciose per Dante, riprendono la trama dolorosamente autobiografica del Canto e tocca ad Oderisi profetizzare a Dante, in modo oscuro, la condanna all’esilio e l’umiliazione che ne deriverà.
E questa non poteva che essere la migliore testimonianza di quella umiltà che, fin dall’epoca della Vita Nova, aveva assunto un posto centrale nell’etica di Dante, in una prospettiva spirituale e insieme lirica nella quale la connotazione feudale della lirica cortese svaniva di fronte alla fedeltà e obbedienza del servo d’amore. Nella Commedia, l’umiltà diventa il tema conduttore della seconda cantica, strettamente collegato con quello dell’espiazione e della redenzione, quella “bona umiltà” che giaceva nella tradizione ascetica accolta da Tommaso e soprattutto evidente in Anselmo d’Aosta (il quale identificava il peccato con la superbia).