Un incontro sul multiculturalismo
Storie di Shivaismo
Presso l'Università Orientale di Napoli nasce un centro di studi dedicato alle lingue, alle memorie e alle culture che fanno riferimento alla religione Shiva, anche in relazione con la società occidentale. Ne parliamo con la responsabile, Florinda De Simini
La religione di Shiva nei secoli ha creato una cultura religiosa e storica dalle mille sfaccettature. Per conoscere meglio questo mondo e in particolare la corrente laica, “mondana” della religione di Shiva, lo shivaismo, Succedeoggi ha intervistato Florinda De Simini, professore associato di Storia dell’India Antica e Medievale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Dopo gli studi di filologia classica e indologia a Napoli, De Simini ha conseguito il dottorato di ricerca in indologia presso l’Università di Torino. Ha lavorato in Olanda e Germania prima di tornare all’Orientale di Napoli con un assegno di ricerca. Dal 2018 è assegnataria di un finanziamento dello European Research Council. Autrice di numerosi studi accademici pubblicati in riviste e monografie, ha all’attivo un volume sulla ricezione del buddismo in Occidente per l’editore Carocci, e un volume di studi storico-ritualistici pubblicato per De Gruyter.
Hai vinto il prestigioso Starting Grant assegnato dal Consiglio Europeo della Ricerca. Me ne parli?
Si tratta di un finanziamento di un milione e mezzo di euro assegnato a ricercatori che stanno iniziando la loro carriera. In questo caso, per potervi accedere devono aver concluso il dottorato di ricerca da minimo due a massimo sette anni. La valutazione avviene sulla base di un progetto di ricerca ambizioso, che viene sottoposto al vaglio di vari esaminatori internazionali e del curriculum del proponente, il “Principal Investigator”. Nell’ultima fase di valutazione sono anche stata chiamata per un’intervista a Bruxelles, davanti a una commissione di circa 20 studiosi del macro-settore a cui afferisce il progetto. Grazie a questo finanziamento, tramite la mia “istituzione ospitante”, cioè l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, ho potuto assumere un team di studiosi per lavorare a vari ambiti del progetto, oltre ad aver di fatto contribuito ad assumere me stessa. Quando ho inviato la domanda, nel settembre 2017, avevo un contratto che mi sarebbe scaduto pochi mesi dopo; ora insegno in veste di professore associato Storia dell’India Antica e Medievale presso la sede principale del progetto, l’Università “L’Orientale”. Il progetto ha anche due sedi affiliate, che sono l’Università di Bologna e l’École française d’Extrême-Orient, con la sua sede di Pondicherry in India, le quali si occupano di aspetti specifici della nostra ricerca. Per noi è molto importante avere un’istituzione-partner in India, presso la quale abbiamo assunto un buon numero di studiosi e collaboratori indiani, che danno al progetto un contributo molto significativo. Allo stesso tempo, questo è stato il primo progetto ERC vinto da “L’Orientale” di Napoli, seguito a ruota da altri. È una grande sfida che l’amministrazione sta affrontando con determinazione, e che contribuisce ulteriormente all’internazionalizzazione di un’istituzione già a forte vocazione internazionale.
Questi schemi di finanziamento europei hanno garantito finora a numerosi studiosi, dai più giovani fino ai professori più affermati, la possibilità di accedere a finanziamenti ingenti e di condurre la propria ricerca in maniera indipendente e ambiziosa. Mentre i fondi dell’ERCEA (European Research Council Executive Agency) sono diretti a tutti gli stati membri della Comunità Europea e oltre, è quando si lavora in paesi come l’Italia, in cui la ricerca universitaria è storicamente sottofinanziata, che i suoi benefici si sentono di più. Da italiani siamo dunque doppiamente grati all’Europa per le possibilità che offre.
Mi parli dello “Shivadharma Project”?
Quello che noi per brevità e confidenza chiamiamo “Shivadharma Project” ha un titolo più lungo e formale, e cioè: “Translocal Identities. The Śivadharma and the Making of Regional Religious Traditions in Premodern South Asia”. In breve, siamo suddivisi in diversi team che lavorano su quattro grandi regioni dell’Asia Meridionale, tra le più importanti per impatto storico e produzione culturale: il Nepal, le regioni indiane del Nord-Est, il Tamil Nadu e il Karnataka. Oltre ad avere un focus regionale, che implica lo studio di fonti e lingue diverse, quali il sanscrito, il tamil e il kannada, applichiamo anche diverse metodologie, che vanno dallo studio filologico dei testi, a quello delle fonti epigrafiche e iconografiche, alla codicologia e alle digital humanities. L’obiettivo è quello di ricostruire la storia della diffusione trans-regionale della corrente laica, “mondana” direbbero le nostre fonti, della religione di Shiva – quello che noi chiamiamo Shivaismo, ma che le nostre fonti chiamerebbero “Il Dharma di Shiva”, lo Shivadharma. Studiando l’impatto e la diffusione dello Shivadharma in tutte le sue attestazioni, e dunque delle comunità che le hanno prodotte e utilizzate, esaminiamo i processi di assimilazione nei contesti regionali di un fenomeno translocale, individuando dinamiche che, speriamo, potranno essere utili non solo a noi, ma anche agli studiosi di altri aspetti della storia dell’Asia Meridionale. La maggior parte delle fonti che studiamo, pur essendo state molto importanti per un periodo di tempo che inizia nel settimo secolo e si estende fin quasi ai giorni nostri, è inedita e quasi sconosciuta agli stessi studiosi. Una condizione, questa, che si applica ancora a tante tradizioni dell’Asia Meridionale, un’area del mondo che ha prodotto culture di una complessità straordinaria, che gli studi accademici hanno solo in parte intaccato. Stiamo dunque lavorando umilmente, in collaborazione con studiosi indiani e nepalesi, per ricostruire una delle tante pagine di questa storia.
Oltre che da un punto di vista religioso e sociale, studiate lo Shivaismo anche da un punto di vista storico?
Sì, l’aspetto storico è quello più importante e complesso da ricostruire, ma sono sicura che riusciremo, alla fine del progetto, ad avere una comprensione profonda di questo fenomeno. La complessità è data dal fatto che la storia dell’India, con particolare riferimento ai periodi su cui noi ci concentriamo, per grandi linee, dal settimo al quindicesimo secolo, è ancora ricostruita “a macchie”, con periodi e regioni meglio conosciuti e altri per i quali c’è ancora molto da studiare. Per i tanti regni medievali è spesso nota soprattutto la cronologia dei sovrani, ma mancano analisi critiche o studi sulle dinamiche sociali. Questo dipende da vari fattori. Gli studi accademici sull’India sono iniziati, qui in Europa, più tardi rispetto ad altri, quindi soffriamo non solo di un ritardo cronologico, ma anche di un apporto di forze molto minore in termini di numero di studiosi impiegati e tra questi, di quelli che si occupano di storia. Nonostante la rilevanza del soggetto, nel panorama accademico la cosiddetta “Indologia”, con tutte le sue specializzazioni, è ancora da considerarsi una disciplina minore. Questa situazione è destinata a cambiare, certamente, ma c’è ancora molta strada da fare in quella direzione. Vi è poi da aggiungere che, almeno per tutto l’Ottocento e parte del Novecento, i nostri studi sono stati viziati da un pregiudizio di matrice coloniale che aveva spogliato l’India della sua storia pre-moderna e di tutto ciò che rappresentasse la sua cultura viva e attuale, spostando il focus su aspetti dottrinali, filosofici e letterari prevalentemente letti in maniera a-storica. Gli studi dell’epoca hanno sicuramente prodotto risultati importanti, sui quali ancora ragioniamo e costruiamo; sono però purtroppo anche l’epifenomeno di un processo violento di sottrazione e appropriazione culturale.
Lo Shivadharma Project si inserisce in un filone di studi che, negli ultimi decenni, ha provato attivamente a porre rimedio a questo sbilanciamento, e a restituire una dimensione storica ai fenomeni che studiamo, che abbracciano tanto la teologia più astratta quanto i decreti con cui si istituiva la fondazione di monasteri o si gestiva la riscossione fiscale. Speriamo di contribuire anche noi in maniera significativa a restituire la storia antica e medievale dell’India al panorama degli studi storici globali. In un mondo in cui si parla molto di World History, certi aspetti importanti della storia dell’India sono conosciuti ancora in maniera nebulosa e astratta.
La ricerca abbraccia un arco di tempo molto lungo, com’è evoluta la religione di Shiva nei secoli? E che ruolo ha nel mondo moderno?
La particolare evoluzione su cui ci concentriamo è appunto il processo di regionalizzazione della tradizione che studiamo, che va di pari passo con processi analoghi di altri fenomeni politici e culturali. A partire dal sesto secolo, il panorama politico dell’India (e quando parlo di “India” intendo in senso storico, slegato dai confini politici imposti artificialmente nel Novecento) si caratterizza per l’emergere degli stati regionali, una forma politica a cui lo Shivaismo lega a doppio filo il suo successo istituzionale per tutto il primo medioevo e oltre. Testi in sanscrito, forme istituzionali e modelli iconografici sovra-regionali si diffondono tra queste formazioni politiche e divengono qui oggetto di un adattamento originale sulla base del contesto locale. Queste forme di adattamento prevederanno, a un certo punto, una vera e propria opera di traduzione in lingue e linguaggi locali, che si accompagna alla produzione originale in loco. Bisogna precisare che alla base della diffusione tanto dello Shivaismo, (così come di qualunque fenomeno religioso indiano), quanto degli stati regionali, non vi è la pressione politica o militare di un’istituzione o uno stato, ma un processo di adeguamento a un modello per emulazione. I limiti di questa diffusione non si esauriscono neanche all’India o al Nepal, ma riguardano anche il Sud Est Asiatico, di cui però il nostro progetto non si occupa. Non si tratta, dunque, di un movimento dal centro alla periferia, ma di un fenomeno policentrico. La tradizione su cui ci concentriamo è stata poi assorbita dal sorgere di alcune importanti correnti regionali dello Shivaismo, contribuendo alla loro formazione: penso ad esempio ai cosiddetti “Lingayat” in Karnataka a partire dal XIII secolo, o allo Shaiva Siddhanta del Tamil Nadu dal XII, due correnti della religione shivaita che hanno influenzato la formazione di un’identità regionale e linguistica in queste due aree fino in epoca moderna. In questo senso, lo Shivaismo e, in seno a esso lo Shivadharma, ha contribuito al processo di formazione delle identità regionali che è poi alla base dell’attuale suddivisione politica della repubblica federale indiana, e la cui costituzione è stata al centro delle vicende politiche dell’India in fase coloniale.
A complicare ulteriormente il discorso in epoca moderna vi sarebbe poi il rapporto tra questi aspetti e la creazione di una definizione inclusiva di “hinduismo”. Il nostro progetto si colloca agli antipodi di questo fenomeno e vuole mettere in luce piuttosto la complessità storica dello Shivaismo, pur nella sua matrice comune.
Digitalizzerete alcuni dei testi dello Shivaismo per renderli disponibili ai tutti?
Sì e non solo i testi. Abbiamo un programma di digitalizzazione più vasto che riguarda anche tutte le altre fonti che studiamo, quali le fonti iconografiche e le iscrizioni. Grazie alla collaborazione dell’Università di Bologna, che su questo aspetto dispone di un importante know-how, puntiamo a costruire un database in cui i frutti del nostro lavoro siano fruibili in forma digitale in maniera chiara e del tutto gratuita.
Colgo l’occasione per ricordare che i risultati delle ricerche finanziate dalla Comunità Europea, così come pure da progetti ministeriali, oltre a essere pubblicati in libri o riviste a pagamento, devono contestualmente essere messi a disposizione online in forma gratuita, senza dunque le forme di pay-wall che sovente ostacolano la lettura di articoli accademici in formato digitale. A parere mio e di molti altri studiosi, però, questa regola dovrebbe valere sempre. I fondi per le nostre ricerche, parlo del settore umanistico, così come anche per i nostri stipendi, sono quasi sempre fondi pubblici. La pubblicazione è però sovente appannaggio di un mercato di riviste scientifiche in mano a grandi editori e distributori che vivono del lavoro di autori e revisori che non retribuiscono, per poi rivendere i frutti del loro lavoro a prezzi esorbitanti. Per fortuna, la consapevolezza delle storture di questo sistema è sempre più diffusa e iniziano a vedersi importanti spiragli di cambiamento.
Ti rechi in India tutti gli anni, come vedi l’India degli ultimi decenni, sia dal punto di vista economico, sociale che politico?
Negli ultimi anni avevo stabilito la routine di recarmi in India almeno due volte l’anno, ma ora non ci vado dal marzo 2020 a causa delle note restrizioni a cui tutti noi siamo sottoposti. In Nepal avevo previsto un soggiorno di studio l’anno scorso, ma è stato rimandato; sarà il primo posto in cui mi recherò non appena sarà consentito. Nel frattempo, uno dei nostri team members nepalesi, rimasto bloccato a Kathmandu, sta lavorando con le istituzioni del luogo per favorire i contatti accademici e lo studio dei materiali. Altri membri del mio team di ricerca sono riusciti a recarsi in Nepal subito prima che i viaggi internazionali fossero limitati o sospesi.
Non sono certo la persona migliore per rispondere a domande circa l’economia o la società dell’India attuale, perché la frequento da osservatrice ed esperta di cose medievali, che dell’India contemporanea è soprattutto ospite. La società e le istituzioni indiane sono state con noi sempre molto ospitali e collaborative. A un livello più macroscopico, devo purtroppo ammettere che, sotto alcuni aspetti, il clima politico degli ultimi tempi è diventato più opprimente e divisivo. La crescente visibilità di alcune frange nazionaliste intacca ad esempio i rapporti tra le comunità religiose che da sempre popolano l’India. Nel nostro piccolo, finanche lo Shivadharma Project ha subito attacchi internettiani dai sostenitori di ideologie ultranazionaliste. Ciò dimostra quanto la ricerca sulla storia medievale dell’India e soprattutto la ricostruzione dei complessi rapporti tra le correnti religiose “Hindu”, la società e il potere politico, non siano temi irrilevanti sepolti in un passato lontano, semmai oggetto di curiosità antiquaria. Tutt’altro, si tratta di temi contestati, che parlano molto all’identità attuale. Sono anche temi che, purtroppo, sono resi oggetto di strumentalizzazioni politiche e ideologiche che alle volte rendono il nostro lavoro di studiosi molto delicato.
L’India è un paese che ha visto una grande crescita economica, che nell’esperienza quotidiana si è tradotta in una crescita della classe media e del suo potere d’acquisto, ma anche nel pullulare di grandi imprese in ambito tecnologico e scientifico. Un’enorme risorsa della società contemporanea dell’India mi sembra che possa essere, anche in prospettiva futura, il grande numero di giovani. Le statistiche e gli studi potranno dirlo molto meglio di me, ma basta guardarsi intorno quando si è lì per notare che le proporzioni di giovani e bambini sono molto superiori a quelle della popolazione anziana, insomma, l’esatto opposto dell’Europa.
Vorrei anche aggiungere che, da appassionata e visitatrice di fiere e musei, ritengo che i fenomeni letterari e artistici dell’India contemporanea siano di estremo interesse anche per il pubblico internazionale. C’è da sperare che il mercato editoriale italiano se ne interessi di più, e che anche gli studenti e studiosi di lingue indirizzino in misura crescente i loro interessi verso questo enorme e proficuo ambito di studi.
Che ti ha lasciato l’India?
Da quando ho iniziato a studiarla, sebbene limitatamente ad alcuni aspetti della sua storia e cultura, l’India ha esercitato su di me una grande provocazione intellettuale, ma anche una profonda fascinazione estetica. In termini concreti, mi ha lasciato un desiderio enorme di averne una conoscenza sempre più vasta e approfondita e di continuare a tornarci. Spero di poterlo fare ancora a lungo, anche se non basterà una vita per studiare e vedere tutto, ma provo a fare del mio meglio.
Quali sono i cliché più fastidiosi che noi europei abbiamo sugli indiani? Quelli che ti dicono sempre prima che ti rechi in India?
In generale mi sembra che nella cultura di massa in Italia ci sia ancora molta superficialità relativamente all’India, sulla quale si alternano visioni spesso polarizzate, com’è tipico di quando si conosce poco qualcosa. L’eco che hanno avuto fatti di cronaca drammatici ha sicuramente contribuito a rafforzare l’idea di un posto estremamente pericoloso, ed è questa forse la cosa che più mi viene ripetuta. Altri, che forse si fanno abbindolare da tour operator e agenzie di promozione turistica, credono ancora che si vada in India per fare un viaggio mistico. Anche questo è un frutto lontano dello sguardo coloniale, che ancora si riverbera nella cultura popolare e nella comunicazione di massa.
Mi sento in dovere di specificare che in India non mi è mai successo nulla di sgradito, pur viaggiando spesso da sola, e che anzi, nonostante le difficoltà e lentezze che spesso si incontrano, rimane la mia meta di viaggio preferita. L’atteggiamento che mi pare più preoccupante, però, non sono tanto le apprensioni per la sicurezza, che possono anche indurre ad atteggiamenti di prudenza, quanto lo sguardo paternalista e un po’ morboso con cui si guarda agli evidenti problemi di cui questo gigante dalla storia così complessa ancora soffre, come la povertà di certe sacche della sua popolazione urbana. Ho visto e conosciuto turisti europei andare in cerca e fotografare quartieri poveri, bambini di strada e mendicanti, isolando scene che la comunicazione ha giustamente etichettato come “poverty porn”. Questo mi inquieta più del resto: al di là della superficialità che porta a isolare un singolo aspetto che conferma un cliché, ci ho letto anche una certa dose di depravazione.
Anche gli indiani hanno cliché su di noi?
Così, in base alla mia esperienza personale, non mi risultano preconcetti specifici sugli italiani. Certo, è un fenomeno interessante che, da Nord a Sud, l’essere italiani sia ancora associato, anche a livello popolare, con Sonia Gandhi. Credevo che col tempo questa memoria sarebbe scemata, invece l’ultima conversazione su Sonia Gandhi l’ho avuta con un tassista di Chennai nel febbraio scorso, l’ultima volta che sono stata in India.