A proposito de “Le parole della nostra storia”
Siamo tutti greci
Giorgio Ieranò racconta le origini del nostro linguaggio e il vero significato che le parole che usiamo comunemente avevano nell'antichità. La conclusione è che il lessico greco è dominante, ma non altrettanto la sua cultura
Poco tempo fa un comico molto popolare (e anche un po’ populista), Markos Seferlis, ha messo in scena un’opera irriverente, nella quale c’è un dialogo tra un turista inglese e un greco. Seferlis chiede all’anglosassone «Mi ha capito?» E l’altro: «Certo, lei parla inglese perfettamente». «No» replica il comico «è lei che parla greco senza saperlo». A parte il messaggio che la gag lancia, la lingua greca ha lasciato impronte così importanti nei secoli che non ne potremmo farne a meno e rischieremmo di ammutolire. L’onnipresenza della grecità è una questione molto complessa. Ce la spiega, con splendida chiarezza lo studioso e docente universitario Giorgio Ieranò in Le parole della nostra storia (sottotitolo: “Perché il greco ci riguarda”), edito da Marsilio (222 pg., 17 euro). Si legge nella quarta di copertina: «Sorge il dubbio che il rapporto tra “noi e i greci” sia molto complicato e scivoloso. Perché questi benedetti greci, nella loro storia millenaria, sono riusciti a essere tante cose diverse. E anche noi, forse, siamo spesso diversi da ciò che crediamo di essere». Un’affermazione di stampo pirandelliano, si potrebbe commentare.
Scriveva Marguerite Yourcenar a proposito della lingua greca: «L’ho amata perché quasi tutto quello che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco». La scrittrice francese (autrice de Le memorie di Adriano) è forse un po’ perentoria, ma non possiamo contestarla più di tanto. Un altro cantore del greco è stato il poeta inglese Percy B. Shelley. Il quale scrisse: «Siamo tutti greci. Le nostre leggi, la nostra scrittura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia». Le dichiarazioni così entusiaste vanno considerate con molti distinguo.
La democrazia l’abbiamo imparata dai greci? Sì e no. Si prenda per esempio Pericle (il suo epitaffio per i caduti in guerra è del 430 a.C.), osannato quasi fosse un san Paolo laico. La sua democrazia era di fatto il dominio del primo cittadino. La democrazia periclea, correggeva Thomas Hobbes, era una monarchia di fatto. Scrive Ieranò: «Dobbiamo stare attenti a non inciampare ancora una volta nei baffetti di Hitler che, come ricordava il suo ministro Albert Speer, si dichiarava anche lui “seguace di Pericle”».
Il libro di Ieranò si compone di cinque capitoli, oltre l’appendice. «Per capire davvero il greco bisogna uscire dal recinto incantato delle parole ed entrare nel vortice caotico della storia. La forza delle parole greche non sta in una loro immaginaria purezza ma, al contrario, nelle scorie che esse si trascinano dietro da millenni».
Capitolo uno: psiche. Ossia l’anima, la parte più intima e talora nascosta di noi. Oppure identità. Quando Omero accennava alla “psychè” non la intendeva come fece Platone, secoli dopo. Psiche è anche soffio: “breath” in inglese, “soufflé” in francese. La vita rinchiusa in un soffio, ossia in un pneuma (altra parola greca: derivante da “pneo”, soffiare). I latini parlavano di “spiritus”, collegato a “spirare”. E anima? Deriva da “anemos” che significa vento. Vento vivificante? No, i greci l’associavano al momento della morte, quando il respiro, l’alito della vita, usciva dalla bocca del morente. Dove andava questo piccolo soffio di vento? Nell’Ade, il regno dei morti, dove il soffio si trasformava in “immagine” (in greco “eidolon”, ossia ombra evanescente, priva di consistenza. Come era inteso questo soffio? Scrive Ieranò: «I poemi di Omero descrivono più di una volta questo percorso della psychè. L’alito esce dal corpo come una ventata gelida: non a caso i greci, per dire “freddo”, usavano la parola “psychròs”, etimologicamente connessa a psychè».
Si va nel regno dei morti volando. Omero paragonava le anime ai pipistrelli, a volte a un’ape, più spesso a una farfalla. C’era chi le accompagnava ed era un dio dell’Olimpo, Hermes. E l’anima trasmigrata nell’Ade è una sorta di doppio evanescente. L’erudito Apollodoro scriveva: «Omero rappresenta le anime simili alle immagini (“èidola”) che appaiono negli specchi e a quelle che si formano nell’acqua, le quali, mentre ci riproducono in tutto e ripetono i nostri movimenti, non hanno però alcuna solida consistenza, cosicché sfuggono a ogni forma di contatto».
Immagine e non la mente, ossia non ha i “phrenes” che Omero indicava come attività intellettuali. Eppure, pur prive di razionalità, le anime nell’Ade rappresentano la parte più emozionale ed intima dell’uomo. L’insieme delle nostre passioni veniva chiamato “thymòs”, che conteneva la furia e la rabbia. Dall’associazione tra thymòs e kyclos (cerchio, ciclo) derivava la parola ciclotimia, che sintetizza il passaggio continuo da stati di euforia a stati di depressione. Per i seguaci dell’orfismo, che si rifacevano al mitico cantore Orfeo, e per Pitagora, l’anima era una sostanza eterna chiusa nel corpo come un uccello in gabbia o un prigioniero in carcere. Aristotele ci offre una descrizione più pittoresca. Sosteneva in un frammento perduto che «l’anima è aggiogata al corpo così come i pirati etruschi usavano torturare i loro prigionieri legandoli a dei cadaveri». Sarà l’umanista dalmata Marko Marulic (1450-1524) a lasciarci la parola psicologia. «Questa nuova scienza dell’anima inizia a diffondersi in Europa» scrive Ieranò «specie nel mondo protestante». Il tedesco J. Ch. Reil coniò un altro termine importante: psichiatria (in greco “iatrèia” significava medicina. Alla fine dell’800 il viennese Sigmund Freud comincerà a parlare di psicoanalisi, «cioè di uno studio che analizza (dal greco “analyein”, che significa pure sciogliere) i nodi della psiche».
Ora parliamo dell’amore, o, se volete, di eros. Del quale Ovidio nella sua Arte di amare, diceva essere un puer, un bambino. «Perciò – spiega Ieranò – educatelo come si fa coi bambini: insegnategli a obbedirvi, spiegategli come essere al vostro servizio». Per i greci, Eros era un dio possente che, seguendo la mitologia, nasceva direttamente dal Caos, dalla voragine primitiva che è la matrice dell’universo. “Chaos” significa letteralmente “apertura”. Non a caso il termine “chasko” significa anche “a bocca aperta”. Il chaos si presenta non ancora ordinato, tanto è vero che è sinonimo di confusione o di disordine. Ai tempi della Grecia arcaica «il poeta Esiodo è stato il primo a descrivere, nella sua Teogonia, la portentosa nascita dal Caos di questo essere misterioso e onnipotente, “che doma la volontà di uomini e dei”. Ben presto gli abitanti del Peloponneso hanno iniziato a immaginarselo e a raffigurarselo come un essere alato. «Forse perché, come cantavano i poeti, egli si avventava sugli uomini rapido e furioso come un vento».
Nel Simposio, Platone fa dire a Socrate che Eros non è un dio primordiale, semmai è un demone figlio della Povertà (“Penia”) e dell’Espediente (“poros”). «E viene celebrato come la forza che ci rende sempre insoddisfatti e ci spinge a cercare qualcosa di altro da noi, la bellezza sovrumana nascosta sotto le spoglie di una bellezza mortale». Una forza che coinvolge sia uomini, donne e divinità. In Grecia non c’era, scrive Ieranò «distinzione tra amori eterosessuali e omosessuali nel linguaggio erotico e nell’immaginario poetico. L’omosessualità maschile era spesso inserita nella categoria della “Paiderastia”, ossia il desiderio per i “paides” (i ragazzi). Nelle élites intellettuali e sociali era una pratica comune: «L’adulto svolgeva anche la funzione di maestro che educava e iniziava il ragazzo alla maturità, non solo sessuale. Il popolo, invece, guardava alla pederastia con maggiore sospetto, considerandola una stravaganza di gente snob». Oggi questo termine non è più nobile ma turpe, è un comportamento passibile di arresto». L’omosessualità femminile non aveva un nome preciso, «se non il tardo e bizzarro “tribas“, dal verso “trìbo“, ossia sfregare». In altre parole le tribadi erano le donne che si sfregavano tra di loro. Secondo quanto scrive Giorgio Ieranò «quando parliamo di amori saffici o lesbici, hanno una patina che è solo falsamente antica. Gli aggettivi, ovviamente, fanno riferimento alla poetessa Saffo che abitava nell’isola di Lesbo… il collegamento tra i termini lesbico o saffico e l’omosessualità femminile avviene più tardi, nell’Ottocento ed è legato soprattutto all’opera di alcuni scrittori francesi che, da Charles Baudelaire a Pierre Louys, eleggono la poetessa a vessillo di amori raffinati e trasgressivi, da opporre alla morale borghese». Con la parola “pòrne” si indicava la prostituta, ossia donna di bassa estrazione sociale, per nulla raffinata. Secondo Saffo e anche Sofocle chi s’avvicina all’amore prova una sensazione dolceamara (“glykypikron”). L’amore mescola cioè gioie e dolori, ti rende felice ma ti fa soffrire.
Eros, insomma, non era per i greci sinonimo di amore, «non esprime la relazione amorosa tra due persone, ma solo l’impulso di una verso l’altra. Per indicare il rapporto di amore come scambio reciproco e vincolo di affetto, i greci usavano altri termini: “philia” e “agape”, che per noi significano anche amicizia. Il sostantivo “agape” (dal verbo “agapao”) è usato da Gesù secondo i Vangeli. «Dio è agape» si legge nella prima lettera di Giovanni. Ma questa parola compare nei testi omerici. Infatti nell’Odissea quando Penelope prima stenta a riconoscere Ulisse come marito, poi si ravvede e gli chiede scusa. E usa il termine “agapao”, infatti. Nella Grecia di oggi per dire di amo si dichiara “se agapò”, ossia “ti amo”.
Per le leggi della brevità giornalistica, andiamo al capitolo “Epidemia”. Pensando ai giorni nostri, in cui si usa il termine “pandemia” (più appropriato di epidemia. A questo proposito, spiega Ieranò, «di colpo quello che Tucidide aveva raccontato due millenni fa sulla peste di Atene, e che ci pareva così lontano, è sembrato fosse stato scritto apposta per noi». Non è un caso che qualcuno ricordi la pestilenza narrata all’inizio dell’Iliade di Omero o la contaminazione di Tebe, descritta nell’Edipo re da Sofocle. Oggi molti si credono grecisti, magari descrivendo la Milano o la New York del 2000, minacciate e svuotate dalla pandemia Covit, paragonandole al campo acheo o a Tebe, colpita dalla punizione di Apollo. Tuttavia i greci erano diversi da noi. Secondo loro, la parola “epidemìa” era qualcosa che piomba “sopra” (“epì”) un intero popolo (“demos”). Ma né Omero, né Sofocle, né Tucidide usano mai la parola “epidemìa”, termine che in greco significa comunque qualcosa di diverso da “malattia che affligge tutto il popolo”.
La parola è invece usata da Ippocrate, il fondatore della medicina, per indicare le malattie pestilenziali che affliggono un intero territorio ma non nascono da affezioni individuali. Omero ricorre al termine “epidèmios” in un altro senso. Il Nestore dell’Iliade, saggio tra gli achei, depreca gli orrori della guerra che definisce, appunto “pòlemos epidèmios”. Stando al senso che i greci davano al termine epidèmios non si trattava di epidemia o pandemia, in quanto la parola significava “colui che sta a casa”. Interessante notare che lo storico Tucidide a proposto della peste di Atene (nel 420 a.C.) scriveva che i primi casi erano sorti lontano – come la Cina di oggi, guarda caso – ovvero in Etiopia, Egitto e Libia. Con il commercio il morbo era arrivato al porto ateniese del Pireo. Altri testimoni parlarono dell’aria infetta. Era noto il caso della “tosse di Perinto”, in Tracia, che in modo simile al nostro Covit, colpiva duramente le vie respiratorie, degenerando in polmonite. Solo nell’Ottocento si conia il termine “pandemia”, indicando un’epidemia che si diffonde su scala planetaria.