Periscopio (globale)
Scliar e il giaguaro
Omaggio a Moacyr Scliar, uno dei più grandi (e meno conosciuti) romanzieri brasiliani. Umorismo e malinconia sono gli ingredienti principali della sua scrittura, sia quando affronta la realtà sia quando fugge nelle illusioni
Il plagio (o presunto tale) è sempre una questione complessa e delicata. Tale deve essere apparso subito allo scrittore brasiliano Moacyr Scliar, quando, vent’anni dopo aver dato alle stampe un romanzo di moderato successo − moderato è del resto il successo di tutto ciò che non si pubblichi nella lingua che domina −, venne a sapere che un giovane scrittore canadese, con un libro scritto guarda caso in inglese, si era appena aggiudicato il prestigioso Booker Prize. Qual è il problema, si chiederà giustamente il lettore. Beh, il problema è che, benché il romanzo che aveva vinto il premio fosse ovviamente diversissimo da quello di Scliar, l’immagine centrale, quella che resta impressa nella fantasia e nella memoria del lettore, era proprio identica. Nel suo Life of Pi (Vita di Pi), del 2001 (divenuto poi anche un fortunato film di Ang Lee), Yann Martel immagina infatti che a un certo punto il suo protagonista, un ragazzo indiano, finisca alla deriva in pieno oceano su un canotto insieme a una tigre; peccato che nell’identica e, ammettiamolo, piuttosto insolita situazione si trovasse anche il protagonista del romanzo di Scliar Max e os felinos, uscito nel 1981, ben vent’anni prima. Martel si difese all’epoca dicendo di non aver mai letto il libro dello scrittore brasiliano, ma di essere rimasto molto colpito da una recensione dello stesso, ad opera di John Updike, sul New York Times; peccato solo che nell’archivio del New York Times di questa recensione non ci sia traccia, e che lo stesso Updike abbia in più occasioni negato di essersi mai occupato di Max e os felinos, romanzo che probabilmente fino a quel momento non aveva mai letto neanche lui (forse l’ha fatto in seguito, o almeno glielo auguriamo). Successivamente Martel corresse il tiro, ammettendo che forse aveva fatto confusione, che non era il New York Times, ma di certo un altro giornale, e nemmeno Updike, bensì probabilmente un altro recensore meno blasonato. Semplicemente, non se ne ricordava più, fine della storia. Da parte sua, nell’insieme Scliar la prese abbastanza bene, forse non proprio con nonchalance quasi sovrumana − quella che sembra volergli attribuire a tutti i costi Wu Ming 2 nelle poche righe di presentazione della seconda edizione italiana, edita nel 2012 da Meridiano Zero con il titolo Guida per naufraghi con giaguaro −, ma comunque con una certa eleganza. Scartata alla fine l’ipotesi di un’azione legale, a quanto pare caldeggiata soprattutto dal suo editore, Scliar si limitò a dire che le idee rientrano comunque nel concetto di proprietà intellettuale e che, pur sentendosi onorato dell’interesse suscitato presso un collega, avrebbe preferito che Martel, autore peraltro (lo ammetteva volentieri) di un buon romanzo, lo avesse informato o gliene avesse parlato prima.
Fa un certo effetto, per nulla consolante, dover riconoscere che il momento di massima notorietà internazionale di Scliar sia stato determinato appunto da questo risibile scandaletto, più che dalla diffusione capillare della sua multiforme opera. Stiamo parlando infatti di un autore semisconosciuto, almeno da noi, che però è al tempo stesso uno dei massimi scrittori brasiliani del Novecento, da porre senza esitazioni accanto a una Clarice Lispector, a un Carlos Drummond de Andrade, a un Antônio Callado o all’inflazionato Jorge Amado; di un autore immaginifico e torrenziale che forse, tra tutti loro, è per certi versi anche il più vicino al grande maestro della letteratura brasiliana, João Guimarães Rosa, che con Grande sertão ha scritto in assoluto uno dei capolavori più intensi, malinconici e struggenti (e purtroppo anche uno dei meno letti, almeno da noi) del Novecento.
Scliar, che ci ha lasciati esattamente dieci anni fa, il 27 febbraio 2011, era nato a Porto Alegre, nello stato meridionale brasiliano del Rio Grande do Sul, il 23 marzo 1937 da una famiglia di ebrei provenienti dall’Europa dell’Est, i quali avevano trovato rifugio in quel quartiere di Bom Fim che sarà poi al centro della sua opera narrativa. Per la regola secondo cui nomen est omen, il singolare nome di battesimo dello scrittore è scelto e gli viene imposto dalla madre, avida lettrice, che lo deriva da un personaggio dell’autore romantico José de Alencar, legando così il figlio, implicitamente e fin da subito, a un’esistenza che ruoterà intorno alla creazione letteraria. Ma il retaggio familiare è importante anche per altre ragioni. È infatti proprio la coesistenza, a volte non priva di complicazioni, fra le tradizioni familiari di stretta osservanza ebraica e un mondo esterno la cui sostanza, come diceva Scliar stesso, era data dal calcio, dal samba, dal folclore dei gauchos e dalla lingua portoghese, a innervare fin dal primo romanzo, A guerra no Bom Fim (1972), tutta la sua riflessione teorica, fino alla creazione della riuscitissima metafora del centauro che presiede al romanzo più fortunato, O centauro no jardim, del 1983 (Il centauro nel giardino, Voland, 2002). È questa compresenza di temi di origini così diverse a caratterizzarlo e a distinguerlo sia dagli altri scrittori brasiliani che abbiamo citato − Clarice Lispector, per fare un esempio, nasconderà sempre, o minimizzerà, la propria origine ebraica, e nell’opera di Amado la componente favolistica e il piacere di narrare prevalgono di gran lunga sul tema della diaspora −, sia dai grandi scrittori latinoamericani di poco più anziani (da García Márquez a Cortázar) di cui pure si avverte l’influenza nei suoi scritti e ai quali Scliar stesso, in più occasioni, ha reso omaggio. Se per gli ebrei rifugiatisi in Brasile il peggiore spauracchio restano i nazisti, e la possibilità, non poi così remota, che l’odio verso gli ebrei attecchisca anche nel continente latinoamericano, per i brasiliani il concreto problema quotidiano è dato dalla miseria, da uno sviluppo che non decolla, o che se decolla, lo fa sempre a spese dei più poveri.
Da questo punto di vista il personaggio principale del Centauro nel giardino, Guedali Tartakovsky, per metà uomo e per metà cavallo (due metà che si rivelano incompatibili), è la personificazione letteraria dell’identità plurale (e in sé contraddittoria) dell’animo del suo autore, scisso fra la conservazione e il rispetto della tradizione ebraica europea, comprensiva di certe insuperabili preoccupazioni, da un lato, e la tentazione di tuffarsi e integrarsi nel variopinto e derelitto mondo brasiliano, dall’altro. Non sto qui a raccontare il romanzo, in cui uno scatenato Scliar sottopone il suo povero centauro a difficili prove e che merita davvero la lettura, non fosse che per la surreale capacità inventiva dell’autore. Mi limito a ricordare che la stessa tendenza verso un’ibridazione culturale e la stessa ricerca dell’identità erano evidenti anche nel precedente e già citato Max e os felinos, il cui protagonista è invece un giovane ebreo tedesco costretto a fuggire dalla Germania nazista, il quale, dopo varie avventure, un lungo periplo e la già menzionata avventura con il giaguaro, arriva a sistemarsi in una zona agricola del Brasile in cerca di una pace e di una tranquillità che forse non troverà mai, ma che solo una vita semplice poteva garantirgli: “Se ancora gli era concessa un po’ di felicità, dopo tutto quello che aveva passato, non intendeva ottenerla attraverso il denaro, ma con cose semplici, come veder germogliare le sementi, per esempio.” E semplice, nella sua brevità e compattezza, è anche il libro, intenso e pacato, con qualche momento di vera grazia, libro che fra l’altro si legge in un’ora, tutto d’un fiato.
Non mancano in altre opere di Scliar, come A mulher que escreveu a Bíblia, del 1999(La donna che scrisse la Bibbia, Voland, 2004), riferimenti ai testi biblici, o meglio, per dirla in termini meno riduttivi, la tentazione di riscrivere storie bibliche, colmandone in qualche modo le lacune. Scliar si avvale talora anche di un linguaggio mistico e a volte esoterico, ma tratta il suo materiale anzitutto come storie tradizionali, da adattare, con una notevole dose di umorismo e di malinconia, ai cortocircuiti della Storia, quella con la maiuscola, in cui siamo immersi. Qui l’influenza delle parabole kafkiane è innegabile, soprattutto dei testi più brevi e concisi dello scrittore praghese, che Scliar considerava una vera e propria “opera aperta”; sulla scorta dell’esempio kafkiano (ma non solo), alla vicenda della donna che alla corte di Salomone, su richiesta dello stesso, redige almeno una parte dei testi biblici, veicolando in essi ideali erotici, femministi e antipatriarcali propri non certo dei suoi tempi, ma semmai del secondo dopoguerra, Scliar intreccia una riflessione assai profonda sul concetto di creazione e sulle prerogative dell’autore.
L’altro grande tema che fa spesso capolino nell’opera di Scliar, soprattutto quando le sue brillanti metafore sono basate sulle capacità di rigenerazione e trasformazione del corpo umano, deriva direttamente dal suo secondo (o forse primo) mestiere, quello del medico, che con notevole ironia qualificò una volta di “profissão portatil: dependia do conhecimento que o médico levava consigo” [professione portatile, in quanto dipendeva dalla conoscenza che il medico recava con sé]. Laureatosi in medicina nel 1962, eserciterà regolarmente la professione, tentando di dividere con equità il suo tempo fra la cura dei pazienti e quella dei lettori. E non è certo un caso che nei suoi romanzi e racconti sia spesso proprio il corpo, con la sua fragilità e i suoi dolori, il terreno dello scontro che l’ebreo deve affrontare per integrare in sé elementi tanto diversi, suggestioni a volte così divergenti. Anche qui Scliar è perfettamente consapevole di muoversi nella scia di grandi predecessori, da Čechov allo stesso Guimarães Rosa, e come loro fa in modo di trovare un punto d’incontro fra la pratica letteraria e quella medica.
Restano da segnalare ancora al lettore italiano il romanzo Os leopardos de Kafka, 2000 (I leopardi di Kafka, Voland, 2006), una brillante esercitazione sul tema dell’equivoco (o del fatale malinteso) che attraversa gran parte della storia del secolo, dal fatidico 1917 della Rivoluzione d’ottobre agli anni Sessanta infestati in Brasile dalla dittatura militare di Castelo Branco, e i racconti che compongono A orelha de Van Gogh, 1989 (L’orecchio di Van Gogh, Voland, 2004), libro che insieme alla prima, pluripremiata raccolta O carnaval dos animais (1968) rappresenta un saggio della maestria dell’autore anche nella misura breve.