A proposito di “Uno specchio lontano”
Peste e castigo
La storica americana Barbara Tuchman ha ricostruito la storia della peste nel Trecento. Un catalogo di orrori, terrore e ignoranza nel quale la natura sembra sempre sul punto di voler distruggere l'umanità
Dato che siamo in tempo di pandemia, quel che di analogo successe in passato acquista una grande importanza. Così si scoprono impressionanti analogie sul piano umano, sociale ed economico. 1347: anno della morte nera, così venne chiamata la peste che invase l’Europa salvo poi abbandonare il continente, che disordinatamente cercava rimedi, come una tempesta che si sposta dalla terraferma per andare, chissà, oltre l’oceano Atlantico. Milioni di morti. In molti a pensare che fosse la fine del mondo. A chi dare la colpa? Era una punizione di Dio? Se sì, per quale ragione?
Troviamo la orrenda cronaca di quel tempo in un capitolo del saggio dell’americana Barbara Tuchman, Uno specchio lontano, ripubblicato oggi dalla casa editrice Neri Pozza (785 pg., 23 euro, ottima la traduzione di Giovanna Paroni). Nell’ottobre di quell’anno le navi mercantili genovesi sbarcarono nel porto di Messina. A bordo c’erano dei morti e dei morenti. I marinai avevano strane protuberanze, più o meno grandi come uova, sotto le ascelle e all’inguine. Era la peste bubbonica che aggrediva massicciamente l’Europa. Il morbo si presentava in due forme: infezione del sangue, con bubboni ed emorragie interne, oppure, in modo più violento, infezione delle vie respiratorie, ovvero polmonite. Capitava che una persona presentasse le due infezioni assieme, e questo aumentava di molto la velocità del contagio. Le vittime non sapevano come porre rimedio, tantomeno come prevenire la malattia. Strana coincidenza con il Covid 19 di oggi: sembrava che il morbo venisse dalla Cina e si fosse diffuso attraverso la Tartaria (Asia Centrale).
Ovviamente la peste aggredì subito l’Italia, perché altre “navi assassine” provenienti da Oriente toccarono i porti di Genova e Venezia. Il tasso di mortalità, scrive Barbara Tuchman, fu rovinoso. L’autrice cita una stima fatta ad Avignone (sede papale di Clemente VI): la morte nera causò la morte di oltre 23 milioni di persone, dilagando fino alla Svezia, alla Danimarca. L’anno successivo toccò alla Russia. Caso strano e non spiegato: la Boemia si salvò, diventando così “una sacca immune”.
Malattia ma anche terrore e continuo riferimento all’Apocalisse di San Giovanni. Ad Avignone i cadaveri venivano gettati nelle acque del Rodano, a Londra i corpi erano ammucchiati a strati «finchè traboccavano». Ogni mattina, quando la gente si svegliava, s’affacciava la morte. Per strada, nelle piazze, e naturalmente nelle case. Corpi spesso in decomposizione. A Firenze i cadaveri venivano raccolti dalla “Compagnia della misericordia” (era stata fondata nel 1244). I Misericordiosi portavano vesti rosse e cappucci che coprivano il volto a eccezione degli occhi. Come è accaduto per il Covit 19 mesi fa nella zona bergamasca, «la gente moriva senza riti estremi e veniva sepolta senza preghiere: una prospettiva che rendeva terrificanti le ultime ore degli ammalati».
A Parigi, la peste infierì per tutto il 1349, con il tasso di mortalità di 800 morti al giorno. Tra le conseguenze comparve la carestia. In Inghilterra un vescovo diede ai laici l’autorizzazione di confessarsi a vicenda se non fosse stato trovato in tempo un prete. La morte nera infuriò dappertutto. In Italia gli abitanti sfioravano gli 11 milioni. Racconta la Tuchman: «La peste non era di quelle calamità che inducono all’aiuto reciproco. La sua natura ripugnante e letale non spingeva la gente a unirsi nel dolore comune, ma ne stimolava soltanto il desiderio di sfuggirsi a vicenda». Si legge nella introduzione del Decameron di Boccaccio: «…e lasciamo stare che l’uno cittadino l’altri schifasse… l’un fratello l’altro abbandonava, et il zio il nipote, spesse volte la donna e il marito». Il medico del papa disse chiaramente che «la carità è morta». Un cronista inglese del tempo riferiva che «le carogne sono talmente devastate dalla peste che né animali né uccelli vi si accostano… un tanfo spaventoso».
E l’autrice di questa macabra ricostruzione aggiunge: «La sensazione della mancanza di futuro generò una sorta di demenza disperata». Nella zona del Danubio, un altro cronista scrisse che «uomini e donne vagavano come pazzi». La totale ignoranza delle cause non portò al sospetto che gli effettivi portatori del contagio fossero topi e pulci, «forse perché erano tanto familiari». Il vero bacillo della malattia, Pasteurella pestis, sarebbe stato scoperto soltanto 500 anni dopo.
In cerca di una spiegazione della pestilenza, molti medici «non riuscivano a sfuggire al frasario dell’astrologia, alla quale ritenevano che tutta la fisiologia umana fosse soggetta». Commenta Barbara Tuchman: «Forse per i suoi legami con gli arabi, la medicina era l’unico aspetto della vita medioevale a non essere modellato dalla dottrina cristiana». Il clero odiava l’astrologia, ma è anche vero che Guy de Chauliac, che fu medico di tre papi, «praticava la medicina in osservanza dello zodiaco». In mancanza di una spiegazione, la peste venne considerata, in modo soprannaturale e sinistra, come conseguenza dell’ira di Dio e a diaboliche presenze. Tanto che il papa lo ammise ufficialmente in una bolla del settembre dello stesso anno. Quindi si sposò la tesi secondo cui la peste non era un flagello naturale ma «un castigo del Cielo».
Perché? A qualcuno si doveva dare la colpa, in un secolo in cui dominavano l’avarizia, l’avidità e altre colpe. A fare da capro espiatorio fu scelto l’ebreo, giudicato come “eterno forestiero”. Non era poi da dimenticare le crociate e l’affermazione di Agostino secondo cui i miscredenti dovevano essere puniti in quanto (anche) assassini di Cristo. Dissero alcuni cronisti che si stava ripetendo la “leggenda del sangue”, molto forte soprattutto in Germania e Savoia, ossia che erano i “proscritti” ebrei ad avvelenare i pozzi. La peste sarebbe stata generata da una cospirazione ebraica internazionale. Quindi processi “senza plausibilità”, torture a non finire e massacri di giudei. Capitò che nel 1349 a Worms 400 componenti della comunità israelitica facessero ricorso a una loro antica tradizione e così si diedero fuoco morendo tutti nelle loro case. A Magonza invece si ribellarono uccidendo «duecento della plebaglia». Ma alla fine furono sopraffatti.
In un clima di forte disperazione e di ignoranza ebbe molto seguito il movimento degli auto flagellanti. I quali unirono masochismo e feste orgiastiche. Fu un movimento essenzialmente anticlericale, in antagonismo con la chiesa di Roma. Prendevano possesso delle chiese, «interrompevano le funzioni religiose, mettevano in ridicolo l’eucarestia, saccheggiavano gli altari rivendicavano il potere di esorcizzare il demonio e di resuscitare i morti». A Orvieto si approfittò del caos sociale le autorità comunali ricordarono ai cittadini il divieto di matrimoni misti, ossia tra cristiani ed ebrei. Le pene erano severe: la donna che si univa a un giudeo veniva automaticamente decapitata.
Alla fine di quel secolo cominciò a vedersi «una tendenza opposta: «la sollecitudine per la sopravvivenza della cultura stimolò l’istruzione e diede vivace impulso alla fondazione di università». Non accadde in tutte le nazioni, ovviamente. Vent’ anni dopo all’università di Bologna, Petrarca si lamentò che «non era rimasto quasi nessuno degli antichi maestri e il posto di tanti e tali valentuomini nella città venne occupato dall’ignoranza».