Sabino Caronia
“Crepitio di stelle” di Jón Kalman Stefánsson

Parole oltre la vita

In questo romanzo del 2003, precedente a quelli già pubblicati in Italia, si trovano tutti i temi dello scrittore islandese presenti nei libri successivi: il senso della perdita, il tempo, la funzione salvifica delle parole

Crepitio di stelle (Iperborea, 256 pagine, 17 euro) scritto nel 2003, è precedente agli altri romanzi di Jón Kalman Stefánsson tradotti in italiano. Un uomo di circa quarant’anni decide di rivisitare l’appartamento dove ha trascorso la sua infanzia e di qui incomincia a riannodare le fila dei suoi ricordi. Insieme a quello di due uomini della sua famiglia, il padre e il bisnonno materno, vissuti rispettivamente nell’Islanda degli anni Sessanta e in quella dei primi del Novecento, c’è il racconto della madre perduta (non a caso il sottotitolo dell’edizione originale, omesso nella traduzione italiana, è Requiem), quella madre che «trasformava le parole in uccelli».

Così scrive di lei il narratore: «Una volta ho provato a stare qualche tempo nelle vicinanze della fattoria dove è cresciuta… è stato qui che ha visto crescere l’erba, qui che ha ascoltato il ronzio delle mosche e il crepitio delle stelle, qui che ha trasformato le parole in uccelli e le ha lasciate volare per trovare Dio…».

Certo questo è un romanzo che mette in luce tutti i motivi dei romanzi successivi. Ma c’è qualcosa di più: il senso della perdita, che sarà in tutti i romanzi successivi, ma che qui è una perdita personale. I soldatini sono i referenti del piccolo orfano che non può dimenticare: «Vado a scuola al mattino, scendo il pendio, la mano destra continua a cercare la sua mano sinistra che è sepolta sotto terra nel profondo…». C’è un’incessante ricerca di senso. Leggiamo: «Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia: non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro».

E ancora: «La notte non è sempre la stessa. A volte soffia piano in una cornamusa piena di stelle e trasforma il regno delle tenebre e della paura in una ninnananna malinconica, a volte è luminosa come il giorno, e gli spettri che si azzardano a uscire dalla terra svaniscono con un piccolo schiocco. Nei libri antichi la notte non è descritta come buio, ma come il momento in cui il sonno acquieta tutto ciò che vive, l’aria non si muove, il mormorio delle stelle si affievolisce, il mondo trattiene il respiro. Vi sta scritto che è proprio il silenzio a riempire il terreno, la dimora dei defunti, di un’inquietudine intollerabile. I morti si rivoltano sotto terra e per questo le chiome degli alberi tremano nel cimitero, anche se non spira un alito di vento».

Di tutto restano un solo sasso e una conchiglia: «Un giorno, prima o poi, li riporterò tutti e due sulla snaefellnes e li lascerò al loro posto: il sasso sulla collina, la conchiglia in mare. Grazie per avermeli dati in prestito, dirò».

Molto resterebbe da dire. Si pensi soltanto a quel motivo del tempo che porta via tutto, che ritornerà nei successivi romanzi: «Il tempo si mette d’impegno per cambiare le cose, sembra proprio che non riesca a lasciarle così come sono; però trascura sempre qualche dettaglio». E ancora: «Tutto ciò che conosciamo, tante di quelle cose talmente banali che a malapena ci facciamo caso, tutto sparito…». 

Altro motivo che ritornerà nei romanzi successivi e anzi avrà un’importanza sempre maggiore è quello delle parole. Parlando di Gisbi, l’amico dei bisnonni, il protagonista dice che «il solo e unico posto in cui si trova a casa propria sono le parole». Le parole sono l’unica garanzia, possono lasciare in vita tutto ciò che il tempo sembra portare via, sono l’unica vera possibilità di sopravvivenza oltre il tempo, oltre la vita e la morte. 

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