Viaggio nella Commedia/4
L’ombra di Dante
Arrivato in Purgatorio, Dante affronta due temi fondamentali: la nostalgia della vita vissuta (suscitata in Virgilio che "invidia" l'ombra del poeta) e il senso del pentimento (incarnato dalla figura di Manfredi)
Jacques Le Goff col suo studio del 1981 La naissance du purgatoire ha suscitato non poche reazioni nel campo degli studiosi e dei teologi di parte cattolica, sostenendo che il purgatorio è un elemento della dottrina escatologica della Chiesa cattolica, la cui fondatezza è rigettata dalla maggior parte delle altre confessioni cristiane. Le Goff sostiene che l’idea stessa di un luogo intermedio tra inferno e paradiso, mai testimoniata nei Vangeli, non sia sempre esistita ma sia il risultato di una lenta e progressiva maturazione legata a un insieme di cambiamenti intervenuti nelle credenze e nei comportamenti degli uomini del Medioevo, circostanze legate anche all’arretramento del manicheismo tra la metà del XII e la metà del XIII secolo e all’emergere, tra signori e sudditi, della nuova classe borghese la cui ricchezza, dovuta spesso a pratiche legate all’usura, reclamava speranze di salvezza ultraterrena prima negate. Quelli che Agostino aveva definito i “non del tutto buoni” e i “non del tutto cattivi” tra gli uomini trovavano così uno spazio intermedio dottrinalmente definito dalla Chiesa e un ruolo decisivo viene svolto, ai fini della costruzione dell’immaginario del purgatorio, dal poema dantesco, che interveniva a corroborare (in parte reinventandola) la dottrina purgatoriale definita dal II Concilio di Lione (1274) e poi destinata a sistemazione compiuta con i Concili di Firenze (1438) e Trento (1563).
Nel passaggio dal cupo mondo infernale alle balze salvifiche del Purgatorio,Dante rivela le sue qualità di poeta e di scrittore, mutando tono e linguaggio fin dall’apertura del Canto I: le note di bellezza, dolcezza, serena purezza definiscono un cielo di dolce colore azzurro che imprime subito a tutta la cantica la novità tematica della speranza ritrovata, del cuore che, liberato dalle spine del peccato, compie qui il suo itinerario di pellegrino e di purgante. E così tutto, intorno al poeta, vibra di luce diversa, come quel mare tempestoso in cui si era chiusa l’impresa di Ulisse, il suo “folle volo”, e che ora ospita riti di purificazione e spiagge solitarie dove si accampano figure come quella di Catone Uticense (libera e geniale invenzione di un poeta che pone un pagano a presiedere il purgatorio cristiano), custode della legge e martire della libertà in un regno oltremondano in cui si riacquista la libertà del volere e il bene cui l’uomo è destinato.
E così l’apparizione dell’angelo (Canto II), il “celestial nocchiero” (v. 43) e il salmo dell’esodo intonato dagli spiriti che l’angelo guida saldano, in una atmosfera di incanto musicale, il concerto delle voci di quelle anime che ora sbarcano in fretta sulla spiaggia, una turba “selvaggia” (v. 52) del luogo che segnerà il primo incontro di Dante con gli spiriti del Purgatorio. Tra questi il musico fiorentino Casella cui Dante chiede di intonare la musica scritta per la sua canzone “Amor che ne la mente mi ragiona” che apre il III libro del Convivio (canzone nella quale Dante celebra la Filosofia come amore del vero). Non a caso, la voce di Casella, evocando un amore filosofico che poteva sembrare più alto degli incanti terreni, suscita quel colpevole oblio su cui interviene duramente Catone: come se Dante abbia voluto dirci subito, nei primi due canti, che il Purgatorio non deve essere il regno del bello e nobile desiderio umano, (la bellezza della filosofia o della poesia, come altri interpretano), ma il regno nel quale ogni fine umano deve cedere al bene superiore che lo ha creato.
E così l’improvvisa fuga degli spiriti dopo la rampogna di Catone, fuga che apre il Canto III, indica la necessità di affrontare in modo diverso perfino il concetto stesso di umanità. Anche Virgilio, ferito nella coscienza dal rimprovero di Catone (“qual negligenza, quale stare è questo? / Correte al monte a spogliarvi lo scoglio / ch’esser non lascia a voi Dio manifesto!” vv. 121-23 del canto II), non ha più la funzione sapiente di guida e di maestro di poesia che aveva nell’Inferno: nel Purgatorio diventa la ragione umana che non può raggiungere la profondità del mistero divino e di questo tratta la prima parte del Canto III (vv. 1-45), nella quale il tema del corpo di Dante che getta ombra diventa non solo il malinconico ricordo del corpo dello stesso Virgilio (morto a Brindisi e poi portato a Napoli), ma il tema dell’insufficienza della ragione che non può capire tutto con i suoi limitati mezzi e deve accontentarsi del quia (l’esistenza) senza cercare il quid (l’essenza) delle cose divine. Qui dobbiamo anche notare l’abilità con cui Dante trasferisce su Virgilio l’ombra stessa del suo dire, proponendocelo subito non come la sapiente guida “infernale”, ma come un uomo di grande ingegno che soffre l’impotenza della mente umana non assistita dalla grazia, un destino che si rende di plastica evidenza nelle parole con cui Virgilio coinvolge Aristotele e Platone nel suo stesso turbamento spirituale.
Quel pensoso “chinare la fronte” di Virgilio è il segnale consistente ed evidente della nuova qualità “contestuale” del secondo regno, un interrogarsi accanito che spinge anche lo stesso Virgilio a esitare sulla via da scegliere per scalare il monte in modo agevole. Il “viso basso” (v. 55) di Virgilio suscita l’intervento di Dante e tocca al fiorentino scorgere per primo una folla di anime che procedono in modo lento: saranno loro a indicare ai due la strada meno erta per salire. Virgilio accetta l’aiuto di Dante e si riprende il ruolo di “guida” rivolgendosi a quegli spiriti che, nel loro stesso andare, rivelano il contrappasso della loro condizione: sono gli spiriti di coloro che tardarono a pentirsi o lo fecero in fin di vita o furono scomunicati e qui, in Purgatorio, scontano un periodo di tempo trenta volte superiore a quello vissuto fuori dai decreti della Chiesa. L’appello di Virgilio, più pagano che cristiano (vale a dire l’invito a non perdere tempo inutile, perché quanto più l’uomo sa tanto più conosce il prezioso dono del tempo), suscita la reazione di quegli spiriti e crea la celebre similitudine delle pecorelle, nella cui mitezza è possibile riconoscere una delle beatitudini evangeliche che connoteranno il Purgatorio stesso.
Quegli spiriti si dirigono verso i due e si fermano sbigottiti nell’accorgersi che uno dei due è vivo (il suo corpo proietta ombra), suscitando così la pronta e deferente risposta di Virgilio a una domanda non ancora posta: costui, spiega Virgilio, si accinge vivo a questa salita per volere divino. Le parole di Virgilio quietano subito quelle ombre desiderose solo di ubbidire all’amore che le sprona e pronte a indicare ai due, col dorso delle mani, la direzione da prendere. Qui (v. 102) termina la seconda parte del canto e si apre la terza (vv. 103-45), tutta incentrata sull’incontro con Manfredi, figlio di Federico II e Bianca Lancia, grande capo ghibellino e portatore di un progetto di potere capace di contrastare l’usurpazione temporale dei papi (disegno per cui Dante poteva avere una certa simpatia), sconfitto da Carlo I d’Angiò nella battaglia di Benevento nel 1266, scomunicato ripetutamente dai pontefici. Pur essendo figlio di Federico II, a noi non sembra che Dante gli riconoscesse quella missione imperiale di cui si sentiva investito il grande padre, piuttosto Dante vede in lui il politico avverso alle pretese temporali della Chiesa e ai nemici francesi e angioini, ma anche il cavaliere bello, cortese, magnanimo celebrato dai ghibellini, esecrato dai guelfi, ricordato dallo stesso Dante (nel De vulgari eloquentia) come uno dei creatori della corte letteraria siciliana e come revisore e prefatore del De arte venandi cum avibus.
E tuttavia, l’esplicita simpatia politica e poetica di Dante non ne offusca il giudizio morale: Manfredi diventa, per lui, exemplum della misericordia divina, scomunicato dalla Chiesa, caduto in battaglia ma pentitosi in punto di morte. La durezza spietata dimostrata dall’arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, legato di Clemente IV presso Carlo d’Angiò (disseppellire il corpo dello svevo, onorato dagli angioini come un leale avversario e tradurlo oltre i confini del Garigliano per farne scempio sine cruce sine luce), è criticata da Dante non nel suo aspetto dottrinale e istituzionale (la Chiesa ha il potere di scomunica) ma nel suo uso “politico” e ben distinto deve essere tale aspetto dall’altra questione, quella della misericordia di Dio cui chiunque può rivolgersi direttamente, giacché in Dio giustizia e pietà costituiscono, per ogni cristiano, un’endiadi di tutta evidenza per il sacrificio di Cristo.
Non è Dante, tuttavia, a inventare il pentimento di Manfredi, si trovano tracce di tale conversione in punto di morte in alcuni cronisti dell’epoca (frate Iacopo d’Acqui), ma dobbiamo a Bruno Nardi un suggestivo suggerimento critico che ha un po’ il sapore di una leggenda. Manfredi non condivise la “miscredenza” paterna, ma, nel 1255, essendo seriamente ammalato in Lucania, si fece portare un libello che forse il saggio Ibn Sabin, amico di suo padre, aveva portato dalla Tunisia in Sicilia, ed era stato tradotto dall’arabo in ebraico. Quel libro si intitolava La mela, ossia della morte di Aristotele e narrava del filosofo giunto ormai alle soglie della morte, ma felice perché la parte intellettuale della sua anima stava ormai per far ritorno al suo Creatore, nel cielo stellato. Manfredi tradusse quel libello in latino dall’ebraico e vi premise un prologo nel quale mostrava di credere nell’immortalità dell’anima.
Non so davvero quanto possa essere credibile tale riferimento, ma la suggestione di un Dio misericordioso che passa dall’arabo al latino tramite l’ebraico è un richiamo sottile e degno di una certa attenzione. In ogni caso, Dante non dice, a proposito di Manfredi, cose contrarie alla tradizionale dottrina cristiana, ma semmai le interpreta, pur rispettandone l’autorità, con una libertà maggiore rispetto ai canonisti, sottolineando soprattutto l’aspetto misericordioso di Dio e finendo, in ogni caso, col conferire grande rilievo alla dottrina teologica del suffragio, avversata da catari e valdesi e confermata dal Concilio di Lione (1274), anche se Dante mostra di credere (Purg. VI, vv. 28-42) solo alla preghiera dei buoni e non alla pratica dei suffragi procurati con denaro. L’anima di Manfredi, in tutto il suo dire accorto (non menziona mai il padre, collocato da Dante tra gli eretici come epicureo), non rivela mai quell’accanimento pugnace e acre dei grandi politici “infernali”, ma è tutta concentrata sulle vicende della morte e della conversione finale che lo ha salvato dagli “orribili” peccati commessi, su cui non ci dice nulla lo stesso Dante. A contare davvero è, alla fine, la misericordia divina, insieme all’affetto rivolto da Manfredi alla figlia, alla cui bontà di cuore lo svevo affida la preghiera e i suffragi che potrebbero rendere meno lunga la sua permanenza in Purgatorio.