Danilo Maestosi
Al Museo dell'Ara Pacis di Roma

Labirinto Koudelka

Una mostra dedicata al grande fotografo Iosef Koudelka ci immerge nelle "radici" della nostra civiltà. Ma le sue immagini in bianco e nero hanno il potere di trasformare il Mediterraneo in un labirinto della conoscenza

Nell’Italia ridipinta di giallo, anche a Roma riaprono i musei. Ancora a mezzo servizio: embargo nei fine settimana, obbligo di prenotazione, ingressi col contagocce. Era ora. Continuo a pensare che sia stato un errore, in una città, culturalmente e socialmente allo sbando, disertata dal turismo, trattare i musei peggio di ristoranti o esercizi commerciali e negarli al pubblico.

Un errore, come quello commesso per scuole e università, pensare di poterne compensare il vuoto con visite simulate al computer e prefigurare – il ministero dei Beni culturali lo sta progettando – un futuro sbilanciato verso esperienze modellate sull’uso e l’inflazione della comunicazione domestica e asessuata sui social. Perdere per così tanto tempo il passo e il contatto con la propria platea di utenti può costar fughe e disaffezione.

E ne trovo conferma tornando dopo un così lungo digiuno a varcare le porte di un museo centrale ma di seconda fascia, rispetto ai tanti che la capitale può mettere in campo, quello dell’Ara Pacis in piazza Augusto Imperatore, per vedere una mostra appena inaugurata e di assoluto richiamo come quella che chiama in scena uno dei grandi maestri internazionali della fotografia. Iosef Koudelka, nato in Cecoslovacchia e poi adottato da Inghilterra e Francia, dove si è rifugiato in esilio, dopo il crollo della primavera di Praga e l’invasione dell’armata russa.

No, al secondo giorno di programmazione e con tante anticipazioni entusiaste sui quotidiani, niente code di folla e a fine giornata numeri di presenze deludenti; del resto come quelli registrati al Colosseo e persino ai Musei Vaticani. Certo, c’è il freno diffuso della paura del contagio, della crisi economica che ha impoverito e dirottato i consumi, ma in conto bisognerà mettere, come una falla di sistema da riparare al più presto, anche l’effetto depressivo della disabitudine. E forse, in questo caso, la sensazione del pubblico under trenta – tra i presenti pochissimi i giovani – che le opere di un’arte più riproducibile sin dall’origine come la fotografia possano essere recuperate, consumate e godute altrettanto bene cliccando da casa sul mouse.

È un abbaglio. E proprio l’esperienza in diretta di questa mostra contribuisce a smascherarlo con innegabile evidenza. Perché le immagini di questa straordinaria ricerca d’autore dilatata nel tempo, quasi trent’anni, e nello spazio – i sopralluoghi compiuti e ripetuti in oltre un’ottantina di siti archeologici sgranati nei paesi che si affacciano o incoronano il Mediterraneo, che gli antichi ribattezzarono non a caso come Mare Nostrum – sono come le pagine di un viaggio dell’anima, i respiri, il controcanto, gli echi di  un unico immenso corpo di significati sospeso in un tempo che dal passato si proietta al futuro. Un corpo che non può essere smembrato riassunto in sequenze distanziate, programmate a tavolino o estratte a casaccio.

Le sue voci vanno ascoltate all’unisono in modo immersivo come si ascolta la musica di un coro, che si leva e ci raggiunge dalle vestigia di un passato remoto ma ancora parlante. Per questo la mostra, compilata selezionando le note di un diario molto più vasto e corposo, rifiuta di imporsi e imporci come avrebbe potuto un ordine cronologico.

L’univa vera eccezione è riservata ad una foto scattata nel 1991 a Delfi, che è stato il porto di partenza di questa esplorazione. In quel santuario aggrappato su una scarpata montuosa della Focide, gli antichi greci venivano a interrogare il loro destino prima di accingersi a ogni impresa. E vi innalzavano templi e sacrari che testimoniavano il loro passaggio. Quasi sempre la risposta dell’oracolo era camuffata nella formula di altre domande. A Josef Koudelka la visita ha lasciato in eredità, come cifra da seguire in copione, un analogo enigma: in primo piano non un’architettura leggibile ma una distesa di rocchi di colonne scanalate, residui di forme perdute che si affacciano sulla sinfonia di grigi della collina di fronte e di un cielo che forse porta pioggia. Uno spettacolo di domande in sospeso: come quelle che il fotografo troverà e registrerà in bianchi e neri folgoranti da allora in ogni approdo.

Manca per le stesse ragioni il richiamo rassicurante alla geografia, a una gerarchia di importanza dei luoghi: le poche foto di Roma o di Atene, fulcri di quella civiltà di cui riviviamo qui tracce vertiginose e spettrali di trionfi e cadute, sono affiancate da altre foto che ci trasportano verso altre voragini in siti di minore rilievo storico o monumentale; dall’Italia siano sbalzati in Africa, torniamo in Europa e immediatamente dopo ci ritroviamo in Asia Minore.

Il colpo di genio di Koudelka è racchiuso in un paradosso: per trasmetterci, come ci anticipa il titolo della mostra, la certezza e la voglia di condividere le stesse «Radici» ci precipita e ci costringe ad accettare l’incertezza dello spaesamento: anche chi ha visitato quei siti e quelle rovine stenta, almeno in un primo momento, a riconoscerle, viene inghiottito in un altrove senza nome, ma in compenso può ricordare e sentire come parte di sé luoghi in cui mai si è affacciato, cieli, colline, paesaggi in cui non si è mai specchiato.

Koudelka volutamente ci toglie punti di riferimento. Ci parla della Civiltà del Mediterraneo che ruota attorno a un grande cuore d’acqua e di onde, ma cancella la vista del mare dai suoi paesaggi: solo tre delle ottanta foto in esposizione lo lasciano intravedere. Ci porta a rileggere monumenti e rovine ma mai ci offre inquadrature che abbraccino e rendano subito riconoscibile, misurabile l’intera estensione di una città dissepolta o di un sito.

Il risultato di questa mostra in bilico sul fragile crinale che collega la vita e la morte è un intreccio di sensazioni, miraggi, fantasmi. Fantasie che solo una visita dal vivo, l’immersione in presa diretta in quel flusso sovraffollato di visioni accavallate, in quella miscela di echi e indizi sovrapposti, può sprigionare e restituirci, se accettiamo di abitare e interrogare disorientati quel caos come del resto dovrebbe succedere di fronte a qualunque opera d’arte, che è tale perché ci regala il manifestarsi dell’invisibile. E non ci illudiamo che sfogliare quelle immagini da casa sia la stessa cosa.

Ma poi, via, non è che Koudelka e i curatori di «Radici» si limitino a sprofondarci nel labirinto. Al contrario ci offrono più di un appiglio per muovercisi dentro. Come il grande formato delle immagini che ne aumenta notevolmente la lettura al dettaglio e l’impatto. E soprattutto il loro sviluppo in verticale che ci consente di aggrapparci ad un orizzonte, capire dove l’autore sta indirizzando lo sguardo. Intervento cui fa da contrappunto un altro riuscito espediente d’allestimento: le immagini stampate su sostegni e lavagne orizzontali, che sgranate lungo il percorso ci inducono a cambiare punto di vista a osservare le foto come un pavimento su cui si muovono i nostri passi.

E ancora la scelta del bianco e nero. L’affidarsi solo alla luce e alle ombre per ridisegnare ogni scena e cucire tutte le foto in una comune sintonia emotiva: una sorta di tonalità melanconica che ci accompagna di rovina in rovina impossibile da arginare.

Infine, da non perdere il filmato, un assemblaggio di vari spezzoni, in cui possiamo osservare Josef Koudelka in azione, capire la lunga attesa che prepara ogni inquadratura e non si sa mai se sarà appagata. E poi misurarci con l’uomo, la sua ironia, l’età avanzata fin quasi alla soglia dei novant’anni. I capelli bianchi sempre più radi, le gambe arcuate dalla difficoltà di reggersi in piedi. La sua fragilità, che rende ancora più vicino e prezioso il suo lavoro di testimonianza.

Facebooktwitterlinkedin