“Voci, fiamme, salti nel buio” di Pontiggia
La stanza della Poesia
Interrogazioni su sogno e realtà che chiamano «in causa l’origine e la fine e insieme l’oggetto di ininterrotta speculazione denominato ‘materia’». E che, nell’ultima raccolta del poeta lombardo, danno forma alle due parti che la compongono con ricordi, rêverie, metamorfosi, viaggi della mente…
Dove finisce quella che per convenzione chiamiamo realtà e dove inizia il sogno? E sono poi così distinti – realtà e sogno – come si vorrebbe o almeno come si è soliti opinare? Fin dalle origini la poesia ha provato a dare risposte a queste domande e il suo rispondere, che chiama ogni volta in causa altre interrogazioni, è motivo non ultimo del suo fascino. Queste domande, in apparenza così semplici, dimorano così sempre attuali e se le pone nel suo ultimo lavoro uno dei maestri della poesia italiana contemporanea, Giancarlo Pontiggia. Voci, fiamme, salti nel buio (Stampa, Azzate-Varese 2019) segue di due anni l’importante Il moto delle cose (Mondadori, Milano 2017) di cui costituisce un significativo approfondimento e si compone di due brevi aggregati poematici che proprio in ragione di tale interrogarsi stanno insieme, distinti e complementari, geminati da un unico pensiero che chiama in causa l’origine e la fine e insieme l’oggetto di ininterrotta speculazione denominato materia.
Il sogno e la fisica, in un’accezione greca presocratica del termine, fanno sì che nella sua essenza il primo rifugga da ogni determinazione o separatezza e prenda senz’altro la parola. Il camion e la notte, questa la prima delle due costruzioni poematiche, si muove infatti su un terreno mutevole che contempla ricordo rêverie metamorfosi («come un delfino dei cieli») e quella che potremmo chiamare un’immaginazione speculativa nel condurre il soggetto attraverso il suo viaggio di stupefazioni e ripiegamenti, trafitture e abbandoni. Così, toccato dalla galileiana “cortesia della Natura”, egli si aggira tra “le cose del mondo” nel suo camion navicella e la bellezza che colpisce la retina si mostra insieme eterna e peritura: «com’è // che non si è mai sazi della vita / e tutto pullula, in noi, come il primo giorno, / pare impossibile immaginarlo, il mondo, / senza di noi, pensare / che continui, uguale, indifferente…». Sembra la culla di Nabokov, che «dondola sopra un abisso e il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è solo un breve spiraglio di luce tra due eternità fatte di tenebra» (in V. Nabokov, Parla, ricordo, Adelphi, Milano 2010).
Brevis lux, appunto. Non fosse che per questo, come sottrarsi all’incanto delle «stelle di questo cielo / nerissimo, sciamante / di ori e di pulviscoli», come sul Rodano in una notte d’estate, dipinto da Van Gogh? Tale inquieto smarrirsi, tale radice leopardiana, è quanto viene precisandosi nella seconda campitura del libro, Animula, che ha filigrana nei pochi versi a noi rimasti dell’imperatore Adriano e stemma in una lepre dalle svariate implicazioni araldiche, a cominciare dalla mitezza, dall’eleganza, dalla velocità che elude… Non altrimenti la cifra elusiva di animula, nell’enigma del suo destino poi che sia stata hospes comesque corporis.
«Principio del mondo, ombra, oro», un verso su cui un lettore dall’orecchio assoluto come Giorgio Orelli avrebbe potuto scrivere un’intera pagina: parte da qui un viaggio della mente dove lo scavo aforistico a esso connaturato trova una sorprendente forma fluida che ne convoglia punti fermi ed esitazioni, quasi in un’unica gittata. Il colloquio con se stesso si fa così partitura, musica inquieta, poesia increspata da una rete allitterativa rotta talora da salti fonici e dissonanze. E colpisce la tonalità febbrile, il ritmo perfino percussivo dell’argomentare, «non osi, tocchi, torni / al buio» o ancora «riprendi / il tuo cammino, sei, non sei, inclini / ad ogni ipotesi». Come in un confronto serrato con il tempo che non lascia tregua.
Pure in questo che non sembra sbagliato definire un dramma, trova posto il ricordo di antichi pomeriggi di luglio con stanza in un’età in cui il tempo pare non essersi ancora avvisato, scegliendo di ritrarsi davanti a «uno stormire – tutto – di pomeriggi / quieti, lunghi, estuosi». Ed è una stanza, quella che ci apre Giancarlo Pontiggia quasi in explicit al suo bel libro, in cui soltanto la poesia, quando è tale, può tornare per riaccendere il lume.