La società drogata di "sport"
Il dio pallone
La denuncia arriva dal “Guardian”: la costruzione degli impianti e delle infrastrutture che ospiteranno i prossimi mondiali di calcio in Qatar è già costata seimilacinquecento morti. Quasi il tributo a una nuova religione pagana fatta di soldi, affari e (troppe) pedate
Seimilacinquecento morti. Perché il pallone continui a rotolare gioioso e indisturbato sugli schermi di tutto il pianeta, per saziare i miopi occhi degli appassionati, per tenere sempre accesa la macchina pompasoldi denominata calcio, per sfondare di denaro le tasche capienti dei maggiorenti del sistema e dei loro tirapiedi. E, infine, per celebrare con il dovuto fasto il primo torneo mondiale di scena nel mondo arabo, tra ubertosi pozzi di petrolio e diritti umani conculcati.
Il prossimo anno, azzimati e ipersorridenti dirigenti di leghe e federazioni andranno a baciare l’anello dell’emiro del Qatar. In un periodo assolutamente inedito: dal 21 novembre al 18 dicembre, inverno, per evitare che gli atleti muoiano assiderati dal clima desertico. Con il prevedibile stravolgimento dei campionati nazionali, di solito in quei mesi in pieno svolgimento. Ma business is business, giusta i dogmi del liberismo, e il pallone è un business magico, un’inesauribile, ghiotta fonte di profitti.
Sul cui altare sono stati immolati, appunto, seimilacinquecento esseri umani; ogni culto reclama le sue vittime sacrificali. Seimilacinquecento; un’aliquota di tutti quei migranti, lavoratori convenuti nell’emirato per costruire sette stadi e tutte le infrastrutture necessarie a mettere in scena l’ennesima rappresentazione dello spettacolo più bello del mondo.
Seimilacinquecento morti. Una carneficina. Manodopera proveniente soprattutto da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka. Il campanello d’allarme ha preso a squillare dalle pagine del Guardian, quotidiano britannico liberal, che si gloria di non avere proprietario e di essere indipendente dai partiti. Rilanciato dal Napolista, giornale online senza i paraocchi del tifo e che, non abdicando alla passione sportiva, mantiene un distacco critico e uno sguardo che va al di là del campo da gioco.
Seimilacinquecento morti. Cifra quasi sicuramente approssimata per difetto, sostiene il Guardian, che si avvale dei dati diramati dai governi delle nazioni asiatiche da cui venivano i lavoratori. Ma nel conto andrebbero messi anche lavoratori filippini, kenioti e di altri paesi, più quelli deceduti negli ultimi mesi dell’anno passato, e non ancora registrati. Dal 2011 al 2020. Da quando, cioè, l’emirato ha avviato un faraonico programma di investimenti pubblici: non solo i sette stadi, ma aeroporti, strade, trasporti, hotel; persino una nuova città, Lusail City, cui toccherà il privilegio di ospitare apertura e chiusura dei mondiali 2022.
Seimilacinquecento morti. Per cause naturali, la spiegazione ufficiale prevalente. Crisi cardiache o problemi respiratori. Ma, sostiene il Guardian, questi referti non hanno il conforto di un’autopsia. Le estati nel Qatar sono pesantemente torride. Chi si trova a lavorare all’aperto ha un sovraccarico di stress per le temperature elevatissime.
Seimilacinquecento morti. Tutto nella norma. “L’aliquota di decessi di queste comunità è nei limiti dell’aspettativa per l’ampiezza e l’andamento demografico”, controbatte un portavoce del governo qatariano. Per aggiungere, compunto: “Comunque, ogni vita che si spegne è una tragedia, e non è stato risparmiato alcuno sforzo per evitare ogni morte nel nostro paese”.
Il quotidiano britannico riporta, sotto il titolo Vite al di là delle statistiche, qualcuna di quelle storie senza storia. Il ventinovenne Mohammad Shaihd Miah, bengalese, è morto folgorato dalla corrente elettrica, dopo che le piogge torrenziali avevano invaso la camerata in cui dormiva. Per assicurarsi quel lavoro, aveva promesso ad un intermediario 3500 euro circa. L’onere adesso ricade sui suoi familiari, che ancora non hanno ricevuto una qualche forma di risarcimento dal Qatar.
L’indiano Madhu Bollapally, quarantatré anni, risulta morto per un attacco cardiaco, classificato come causa naturale. Lascia la moglie e un figlio adolescente. Lavorava da sei anni. Ai suoi sono stati versati poco più di mille euro in cambio delle mensilità non riscosse. Appena una settimana è durata l’esperienza di Ghal Singh Rai, ventenne nepalese, assunto come addetto alle pulizie. I suoi avevano sborsato circa mille euro all’immancabile procacciatore di impieghi.
Seimilacinquecento morti. E il pallone rotola, continua a rotolare, rotolerà sempre più. Folletto maligno e invadente, si intrufolerà in ogni angolo della giornata: dacci oggi il nostro calcio quotidiano. Ancora il Guardian (di nuovo ripreso dal Napolista) fa suonare l’allarme, forse nel disperato tentativo di tutelare le nostre residue facoltà intellettuali: “Il calcio è diventato un cartello inespugnabile, sta divorando tutto per avidità”.
Partite su partite. Un’indigestione di Messi, Ronaldo, Neymar, Ibrahimovic, riproposti a ciclo continuo. Nuove squadre da infilare nella Champions, torneo una volta riservato soltanto a chi effettivamente aveva vinto il proprio campionato nazionale. Mondiali ed europei che diventano extralarge. Con un flusso inarrestabile, incontrollabile di denaro: il vero trofeo in palio per la solita cricca. Sponsorizzazioni miliardarie. La torta pantagruelica dei diritti televisivi, che si aggira sul miliardo di euro. Una manna per le squadre. Restare tagliati fuori può diventare drammatico. Un esempio: il Napoli, che già ha perso il treno della Champions e ha concrete probabilità di non afferrare neppure il contentino dell’Europa League, si troverebbe con qualcosa come ottanta milioni di euro svaniti nell’aria.
Il Guardian commenta: “Con cento partite in più in un programma che già rompe articolazioni e legamenti Lars-Christer Olsson, il presidente delle Leghe europee, con tutta la stupida magnanimità di un papa del XVI secolo ha detto: ‘Penso che potrebbe essere possibile inserire altre quattro date nel calendario’”.
Il pallone inflazionato ha, è ovvio, dimensioni globali. Dopo la trasferta del prossimo anno nelle facoltose contrade del petrolio, il successivo torneo mondiale, nel 2026, con un’armata di quarantotto squadre in lizza, si dispiegherà su ben tre nazioni: Messico, Canada, Stati Uniti, dopo che il Marocco, troppo povero, ha visto la propria candidatura respinta per la quinta volta.
Con gli States, doveroso omaggio al dio dollaro di uno sport che ormai è solo un avatar del denaro, a fare la parte del leone: diciassette, contro le tre del Messico e le tre del Canada, le città in cui si esibiranno i miliardari-forzati del calcio, da Washington alla musicale Nashville.
Un programma mastodontico di opere da mettere in cantiere. Forse, come nel Qatar, qualche altro lavoratore perderà la vita. Non è da escludere che, a testimoniare un’insopprimibile umanità, così come si erigono monumenti ai militi ignoti, uno stadio verrà intitolato ai seimilacinquecento (e più, molti di più da qui alla fine dei lavori) lavoratori morti nel Qatar. Nel nome dello Sport. Che affratella i popoli.