Arturo Belluardo
In memoria di un "amico fragile"

Giorgio e Vasco

«Si era avvitato ridendo nel suo male. Dopo l’ultimo ricovero, se n’era andato a casa, non prendeva più nulla, un Tantum Rosa ogni tanto. Non era stoico, Giorgio, era disperato»

Sono decine, forse centinaia di migliaia ad accogliere la rockstar: Vasco arranca sulla passerella, indossa un ridicolo pastrano smanicato di pelle, ha sessantacinque anni ma ne dimostra ottanta, la voce è un biascichio quasi incomprensibile, impastata di psicotropia. Ed è gonfio, gonfio come un batrace, gonfio come uno di quei rospi dalla pelle allucinogena che gracidano per attirare le femmine e dilatano le guance per fare paura.

Anche Giorgio l’ultima volta che l’ho visto era gonfio. E faceva paura. Il respiratore a cui era collegato lo faceva alzare sulla branda di rianimazione come fosse un palloncino. Il torace gli si riempiva e lui si alzava. E io tremavo, sulla seggiola di metallo del Cristo Re. Avevo provato a fargli una carezza, a stringergli una mano. Niente, ero inchiodato. E lui era legato al letto con cinghie a mani e piedi, forse per impedirgli di volar via, chissà.

I suoi occhi però sorridevano, non avevano mai smesso di sorridere.

“A Giò, e adesso? Che senso gli hai dato a questa storia?”.

Giorgio e Manu erano groupie di Vasco, lo seguivano ovunque tenesse un concerto. Per il suo compleanno, Giorgio aveva regalato a Manu la “V” di Vasco tatuata sulla spalla. Poi Manu aveva lasciato Giorgio, troppe ne aveva combinate. Però ai concerti di Vasco continuavano ad andarci assieme, potenza del Comandante, potenza del tatuaggio, marchio a fuoco o segno magico, legame non scindibile per mano umana.

Anche quando a Giorgio quel male nero si era infilato su per il culo, squassandogli le viscere, avevano continuato ad andare ai concerti di Vasco. Con gli occhi di nero di seppia e il sacchetto della colonstomia che rischiava di staccarsi a ogni pogata, continuavano ad andare.

“Pensa che concerto di merda se si staccava” rideva Giorgio.

“A Giò, ma non ti dovresti riposare? Quanti nei hai visti di concerti di Vasco? Ne vale la pena?”.

“Per il Comandante vale sempre la pena. E di tempo per riposare ne avrò tanto” continuava a ridere Giorgio.

Si era avvitato ridendo nel suo male. Dopo l’ultimo ricovero, se n’era andato a casa, non prendeva più nulla, un Tantum Rosa ogni tanto. Non era stoico, Giorgio, era disperato.

“Alla fine, chissà che non me lo meriti”.

“Che cazzo dici, Giò?”.

“Non la voglio più fare la chemio, non posso più stare così male” il dito scorreva veloce sul bordo di velluto della sedia.

E che dici in questi casi? Quale risposta ti deve sgorgare dalle labbra? Che non vuoi che il tuo più caro amico muoia? Che non si può morire a quarantatré anni? Ma tanto lui muore lo stesso. Punto. Senza a capo.

È tutto un equilibrio sopra la follia…

“Ti ho portato questo”.

“Oddio, ma è Tracks 2!” scartando il cellophane del CD “Ma questo ancora non è uscito come hai fatto ad averlo?”.

“Only the best for the best”.

“Ma a te Vasco non faceva schifo?”.

“Schifo? No, solo non capisco quest’adorazione… comunque Amico Fragile la canta benissimo, forse meglio di De Andrè”.

“L’hai già sentito?”.

“No. Era uscita nel cofanetto tributo a Faber, sai, il concerto che hanno fatto quando lui è…” mi fermai sull’accento, che coglione.

Ma Giorgio mi abbracciò, il sacchetto pieno di liquame che mi entrava nelle costole.

“Grazie, grazie davvero. Almeno faccio in tempo a sentirlo”.

Amico fragile, potrò occuparmi un’ora al mese di te?

Un’ora al mese? Ad averne l’opportunità, l’occasione colta al volo come un piccione. Eri volato via dopo pochi giorni, libero finalmente, libero di non ritornare.

La Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo aveva registrato il tutto esaurito, allievi dell’Accademia Drammatica; compagni di corso, anche famosi, Picchio Favino, Fabrizio Gifuni; allievi di Casal del Marmo, il carcere minorile, scortati da secondini in lacrime; allievi delle case famiglia; la tua Compagnia, Adynaton, seduta dove gli altri non si erano voluti sedere; ovunque avevi seminato teatro e dolcezza; ovunque avevi portato la tua vita esagerata. Mi era stato chiesto di portare la bara assieme ai tuoi attori: qualcuno aveva detto “Giorgio sarà felice. Non è stupendo?”.

Sì, stupendo, a me veniva il vomito.

Ti portammo nel sole, tra gli applausi, l’insegnante di recitazione in versi dell’Accademia aveva cercato di toccare la cassa, ma avevo scartato, costringendo i portantini a una curva. Lui proprio no. Loro dell’Accademia proprio no.

Dall’Accademia ti avevano mandato via dopo quella storia dell’allieva pazza. Ti aveva tirato un calcio nelle palle talmente forte che eri dovuto rimanere a casa per un mese con il ghiaccio sopra.

“E che fa adesso?” avevo chiesto a Manu, mentre mi scottavo la lingua con il caffè.

“Niente, sta lì con la palla in mano” avevamo riso; poi Manu aveva sollevato la testa in una smorfia contratta.

“Ma tu gli credi?”.

“A cosa?”.

“Che stavano provando la scena del bacio di Romeo e Giulietta e che quella è impazzita improvvisamente e ha pensato che la volesse violentare… Non è la prima volta. Anche quella volta con Giorgina…”.

“Beh, ma con Giorgina era stata un’altra storia”.

“Sì, un’altra storia persa. Ma tu gli credi?”.

In Accademia no, non gli avevano creduto. Non gli avevano rinnovato il contratto.

“È tutta una scusa, devono far posto a uno dei loro! Vado dall’avvocato!”.

Poi Manu l’aveva lasciato, gli aveva chiuso la porta di casa loro alle spalle.

“Dice che non lo sopporta più il mio lato nero. Ma quale? Tu lo vedi? Mi vedi? Io so’ sempre lo stesso. Giorgio. Giorgio di sempre, perché mi ha mandato via? Io non ce la faccio più”.

Gli avevo consigliato una mia amica psicologa, una signora di sessant’anni molto materna, Marisa.

“Ci sei andato Giò?”.

“Sì, una volta, ma è inutile. So’ troppo bravo io, recito anche con lei. E poi adesso ho altro a cui pensare. È una settimana che caco sangue”.

“E capita pure a me, sono le emorroidi. Smetti di mangiare piccante”.

“Dici?”.

Non erano le emorroidi. Il suo male viola gli era risalito in fretta dalle viscere ai polmoni. Aveva aspettato due mesi a fare la colonscopia. Manu l’aveva accompagnato. Aveva vomitato l’anima. Poi era svenuto. Sì, stupendo.

O splendido.

È stato splendido. E anche triste. Ma la tristezza però si può racchiudere dentro una canzone.

Manu e gli attori dell’Adynaton erano andati a Londra.

“Che lì è più facile beccarlo, conosco uno della troupe che conosce Tania Sachs che ci fa aspettare nella hall e ci fa incontrare Vasco quando arriva”.

Manu ci riuscì, parlarono a Vasco di Giorgio. E quando il Blasco finì di suonare Canzone sul palco dell’Hammersmith Apollo gridò “Ciao Massimo!” e subito dopo “Ciao Giorgio!”.

Se non ci credete, ascoltate la traccia 12 del secondo cd del London Istant Live. È l’unico disco di Vasco che abbia mai comprato.

Adesso, sette anni dopo, il bolso Comandante è lì che cerca di dimenarsi sul palco, non posso non pensare a Giorgio steso sul tavolo di marmo con indosso la felpa del suo idolo. Non posso non pensare a quando, un anno dopo il funerale, incontrai Marisa a piazza San Cosimato che portava a spasso il cane, un fox-terrier fulvo e incazzoso.

Ci sedemmo a un tavolino del Samovar. Io ordinai un Bloody Mary, la psicologa un gin tonic. Mangiammo qualche nocciolina, una bruschetta. Un secondo giro.

“E il tuo amico, l’attore?”.

“Giorgio? È morto, non lo sapevi?”.

Le lacrime iniziarono a scendere sul volto paralizzato dal sorriso precedente.

“Non… non c’è riuscito quindi. Si è divorato” Marisa fissò un taxi ibrido che entrava silenzioso nella piazza trasteverina.

“Ma, Marisa, lo conoscevi appena…”.

“Era venuto per due mesi, poi era sparito. Ecco perché…” mi guardò con occhi glauchi “Ti posso chiedere come….”.

“Un tumore al colon”.

“Non ce l’ha fatta, non ce l’ha fatta” Marisa non riusciva a smettere di piangere e io con lei “La sua oscurità l’ha divorato”.

Io mi sentii il vuoto nella nuca, negli occhi.

“Era tutto vero, allora. Le violenze…”.

La psicologa annuì, mi strinse un polso.

“Io te lo dico perché eri il suo più caro amico. Non ce la faceva a sopportare quella parte nera di sé, non ce la faceva a combatterla. Il mio amico Hyde, la chiamava. È riuscito a fermarla solo ucc…”.

Si era levata una tramontana improvvisa e forte nella piazza, un menu era volato tra me e Marisa, tovaglioli e stecchini al seguito.

“Guarda che bel vento…” mi aveva detto.

E io aspetto ancora.

Aspetto che Vasco canti Canzone, che la dedichi ancora a Giorgio.

Ma non lo farà, le canzoni sono come i sogni che poi svaniscono.

E noi restiamo qui, soli, a cercare di dare un senso a questa storia.

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