Periscopio (globale)
Dürrenmatt e il caso
La vita è un concatenarsi di eventi talmente misterioso da risultare imperscrutabile: dalla letteratura al teatro, la parabola creativa di Friedrich Dürrenmatt è stata una delle più significative (e personali) del secondo Novecento
Se è davvero il caso a determinare le umane vicende, allora Friedrich Dürrenmatt è il suo profeta. Nato cent’anni fa, il 5 gennaio 1921, nell’Emmental e morto nel 1990 a Neuchâtel, per tutta la sua carriera letteraria lo scrittore svizzero si è mantenuto fedele alla convinzione che tutte le nostre azioni, con buona pace del libero arbitrio, siano appunto dominate dal caso o, se si preferisce, da un concatenarsi di eventi talmente misterioso da risultare imperscrutabile. A questo tema principale, che prefigura il romanzo postmoderno, si accompagnano poi molti altri temi secondari, che vedremo in seguito e che Dürrenmatt declina in forme diverse anche a seconda del modo d’espressione di volta in volta scelto (narrativa o teatro), raggiungendo in entrambi i generi risultati rimarchevoli.
Comincia come giallista, Dürrenmatt, sia pure sui generis: i suoi due primi libri sono infatti incentrati sulla figura del commissario Hans Bärlach, che certo non si discosta troppo dal topos d’investigatore imperante nel genere. Si tratta infatti di un personaggio maturo, un notevole osservatore del mondo e degli uomini, moderatamente scettico, immerso nella società ma al contempo sufficientemente distante da essa da poterla valutare e giudicare spassionatamente. Come quella statunitense del poliziesco hard boiled, anche la realtà svizzera appare al protagonista confusa, ipocrita e terribile, tanto che le sue indagini, più ancora che risolvere il “caso”, tenderanno a far luce, secondo una formula appunto non inedita, sui meccanismi che determinano la violenza e l’ingiustizia sociali. In Der Richter und sein Henker (Il giudice e il suo boia), scritto a puntate tra il 1950 e il 1951 e pubblicato in volume nel 1952, la giustizia viene ripristinata identificando e sanzionando un crimine rimasto tanti anni prima impunito; in Der Verdacht (Il sospetto), del 1951 (ma pubblicato in volume nel 1953), la critica a certa società svizzera, sospettata e anzi accusata apertamente di connivenze con il nazionalsocialismo, prende toni politicamente più radicali. Ma non bisogna lasciarsi fuorviare dalle apparenze: già in questi primi lavori l’approccio di Dürrenmatt è fondamentalmente ironico, giacché naturalmente non ignora, pur servendosene alla bisogna, il principio secondo cui il giallo è un genere consolatorio, che permette di rassicurare il lettore con il ristabilimento, da parte dell’investigatore, di una parvenza di ordine, quello stesso ordine che il colpevole aveva sconvolto con il suo crimine.
Cambia il protagonista, ma non l’amarezza di fondo che lo stesso prova, nel successivo Das Versprechen (La promessa), che esce nel 1958 con un sottotitolo illuminante: “un requiem per il giallo”. Qui è di scena il commissario Matthäi, nell’insieme non molto dissimile dall’omologo Bärlach, anche se le caratteristiche di questi sono qui portate agli estremi. La prima curiosità è data dalla struttura a scatole cinesi del racconto: la funzione dello scrittore, in trasferta a Coira per tenere una conferenza sul genere poliziesco, è essenzialmente quella di tradurre (dallo svizzero-tedesco) le confidenze che gli fa un amico ed ex-collega del commissario Matthäi, raccontandogli la storia di cui è protagonista quest’ultimo; la seconda dal fatto che la medesima storia figurava nella sceneggiatura per il film Es geschah am hellichten Tag uscito l’anno prima, ma con evidente insoddisfazione di Dürrenmatt, soprattutto per un finale, appunto, troppo consolatorio. Dopo l’uscita del film Dürrenmatt in pratica riprende in mano il suo materiale e lo riscrive, modificando la conclusione in modo tale da dar vita a una filosofia di segno contrario. Mette cioè all’indice la logica sottesa a qualunque poliziesco, cui dedica appunto un requiem − terza curiosità −, e lascia invece per la prima volta che a trionfare sia un’altra forza, quasi sempre lasciata in disparte o considerata secondaria: il caso, appunto, che con facile anagramma predispone il mondo al caos. Caso che nel suo trionfo è scortato e rafforzato dal piacere del paradosso, altro elemento che ritroveremo in tutta la produzione dello scrittore svizzero.
La storia è nota anche grazie a un’ulteriore e assai più fortunata riduzione cinematografica, quella realizzata da Sean Penn nel 2001 con il bellissimo The Pledge, grazie anche a un cast − primo fra tutti Jack Nicholson − in stato di grazia: il commissario Matthäi, che sta per lasciare le forze di polizia e trasferirsi come consulente del governo svizzero in Giordania, è costretto a occuparsi di un ultimo caso, lo stupro e lo strangolamento di una bambina. Durante il colloquio con i genitori della stessa, Matthäi promette solennemente alla madre di trovare il colpevole. Dopo aver rinunciato a una pista banale che agli altri poliziotti, ma non a lui, sembrava promettente (l’abituale vagabondo quale capro espiatorio), Matthäi decide di rinunciare al nuovo incarico e di dimettersi dalla polizia per seguire le indagini in privato. Grazie al proprio intuito e ai disegni lasciati dalla bambina, identifica il colpevole e ne intuisce le modalità d’azione. Acquista quindi una stazione di servizio situata sul tragitto percorso regolarmente dal sospettato e inizia a convivere con una ragazza, Annemarie, che ha una bambina piccola, al fine di servirsi di quest’ultima come di un’esca e cogliere il sospettato in flagrante. Tutto sembra funzionare: Annemarie viene effettivamente abbordata dallo sconosciuto, che le dà un appuntamento. A quel punto Matthäi avverte la polizia e predispone tutto affinché la trappola scatti. Ma poi non succederà nulla: l’uomo non si presenterà mai, e la vita dello stesso Matthäi si ridurrà a un’attesa sempre più vaga e inutile, in un declino che lo porta all’alcolismo e forse alla follia. Solo molti anni più tardi la madre del sospettato confesserà tutte le colpe del figlio, raccontandone le turpi imprese e precisando che egli si stava appunto recando verso il luogo dell’incontro, ossia la trappola ordita dall’ex commissario, quando era rimasto ucciso per puro caso − una coincidenza, però, decisiva per la vita di tutti − in un incidente stradale.
L’incapacità dell’investigatore tradizionale a districarsi in una realtà divenuta ormai troppo complessa e incomprensibile raggiunge il suo acme nel 1961 nel dramma Die Physiker (I fisici), in cui l’ennesimo commissario, che indaga su un crimine svoltosi in un’istituzione psichiatrica, resiste solo per metà commedia e poi getta definitivamente la spugna, scomparendo dai radar e perdendo quindi anche lo status di (apparente) protagonista. L’interesse di questa commedia, peraltro, sta anche nell’appendice alla versione data alle stampe, ventuno punti programmatici in cui Dürrenmatt condensa la sua poetica, iniziando dal proposito di non partire mai da una tesi, bensì da una storia, e ricordando poi che la svolta peggiore non è mai prevedibile, ma avviene per intervento del caso, e che l’arte del drammaturgo consiste nel saper inserire efficacemente il caso e le sue conseguenze nella vicenda narrata. Un caso che sarà anzi tanto più forte, quanto più condannerà i personaggi a raggiungere l’esatto opposto dei loro obiettivi.
Intanto, nel 1956, Dürrenmatt aveva scritto un breve racconto, apparentemente minore, Die Panne (La panne), riutilizzato poi per un atto unico e un radiodramma nonché, ancora una volta, quale ispirazione per opere cinematografiche (La più bella serata della mia vita, di Ettore Scola, del 1972, con uno strepitoso Alberto Sordi). Un racconto satirico, questo, che riporta in primo piano il gusto di Dürrenmatt per l’intreccio fra caso e paradosso e in cui il modello edipico, sempre presente sotto traccia, trova un nuovo travestimento. Edipo è infatti l’epitome dell’eroe che non sa nulla, che è immerso suo malgrado in un enigma, e che agendo finisce, proprio a causa della sua ignoranza di fondo, per determinare la propria sconfitta o perdizione. Come dichiara lo scrittore svizzero in uno dei suoi saggi sul teatro, i miti sono stati ormai distrutti (così come del resto tutto ciò che si apparenta all’eroismo e alla tragedia) e possono essere resuscitati e utilizzati in letteratura solo attraverso un trattamento e una reinterpretazione di tipo parodico, se necessario fino alla vera e propria caricatura. Qui il protagonista Alfred Traps, un rappresentante di tessuti, è costretto da un’avaria alla sua lussuosa Studebaker a fermarsi per la notte nella casa di un vecchio giudice. A cena, il giudice gli presenta dei suoi amici, magistrati anch’essi in pensione, che imbastiscono intorno al malcapitato Traps un simulacro di processo, da cui la sua presunta normalità uscirà demolita. L’interrogatorio condotto abilmente dal pubblico ministero, dalla cui brillante requisitoria l’imputato resta affascinato, porta infatti alla scoperta di vari piccoli crimini e addirittura di un omicidio, che Traps dovrebbe avere sulla coscienza se solo ne possedesse una, ma di cui invece grottescamente si gloria, convinto che lo renda più interessante. Sarà Traps stesso a dare alla fine esecuzione all’inevitabile sentenza di morte. (Nel film di Scola, che gioca molto con la maschera ridicola e smargiassa da “italiano tipico” di Sordi e vira decisamente verso la farsa all’italiana, durante il ritorno a casa il papiro con la sentenza scivola sotto il pedale del freno dell’automobile riparata e fa finire il protagonista, qui Alfredo Rossi, in un burrone.) È un mondo, questo − sembra suggerire Dürrenmatt −, in cui kafkianamente la panne, il guasto, è l’unica cosa che possa ancora succedere agli uomini, quale che sia il modo (buono o cattivo) in cui hanno operato.
Letteratura e teatro, ricorda Dürrenmatt commentando il suo dramma più famoso, Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora), del 1956, sono due mondi separati, il che giustifica, come in questo caso, l’esistenza di versioni diverse, a seconda se siano destinate alla messa in scena o alla pubblicazione. Nel caso di questo lavoro, tuttavia, l’interpretazione è in entrambi i casi univoca e coerente: nella vecchia signora arricchita che chiede al villaggio natio, in cambio della prosperità, la consegna e l’uccisione dell’antico amante che l’aveva messa incinta e poi abbandonata vediamo tutta la crudeltà e la corruzione dell’ideologia capitalistica, quando non le si opponga alcun freno e alcuna remora.
Si è discusso molto sull’origine cristiana, se non calvinista, dell’atteggiamento di Dürrenmatt, figlio di un pastore protestante, nei confronti delle umane manchevolezze. Questo atteggiamento non di rado lo induce − diversamente per esempio dal connazionale e coevo Max Frisch, assai più misurato − a esagerare il gusto del paradosso e a lasciarsi andare a iperboli grottesche che a volte ne squilibrano le storie, rendendole troppo tendenziose. Ma è vero anche che il degrado dell’umanità intera (non solo della società elvetica) è strettamente legato al trionfo dell’universale assurdità delle cose e dell’agire umano, spesso anomalo e gratuito, un’assurdità che Dürrenmatt rileva quasi senza cadute pessimistiche, ma semmai con la precisione e la freddezza di un analista. Lui stesso ci tiene molto a definirsi, malgrado la crudeltà e il sadismo che serpeggiano nelle sue opere, non un “Zyniker” (cinico), ma un “Aufklärer”, uno cioè che spiega, chiarisce e delucida, in senso apertamente kierkegaardiano. Esiliato volontario in patria − pur essendo di lingua tedesca, fin dal 1952 sceglie di vivere a Neuchâtel, in un cantone, dunque, di lingua francese −, Dürrenmatt fa di questa sua condizione di alterità del tutto desiderata un ulteriore cuscinetto o schermo che gli consente di tenere la realtà, che sospetta votata alla catastrofe, a debita distanza.
Da ricordare sarebbero ancora numerosi radiodrammi, il romanzo (o commedia in prosa) Grieche sucht Griechin (Greco cerca greca), del 1955, altri due romanzi di molto successivi, Justiz (Giustizia), del 1985, e Der Auftrag (L’incarico), del 1986, i drammi degli anni Cinquanta Romulus der Große (Romolo il Grande), Die Ehe des Herrn Mississippi (Il matrimonio del signor Mississippi) e Ein Engel kommt nach Babylon (Un angelo a Babilonia), e quelli degli anni Sessanta, come Der Meteor (La meteora) e Play Strindberg. Ma non avendo spazio per trattarne, voglio chiudere invece con un aneddoto, per sottolineare quanto sia difficile piegare la poetica di Dürrenmatt a fini diversi dai suoi propri e quanto alla fine trionfi sempre il paradosso: negli anni Settanta un suo racconto del 1952, Der Tunnel (Il tunnel), fu pubblicato, fra gli altri paesi, anche in Romania. La storia è semplice: un treno entra in un tunnel da cui non uscirà mai più, perché lanciato a folle velocità verso il centro della terra. Il manovratore, tuttavia, resterà ottimista fino alla fine, e ai passeggeri sempre più agitati opporrà la certezza che la loro è la migliore delle fini possibili. Se i censori di Ceauşescu non si opposero alla pubblicazione, interpretando il racconto quale denuncia dell’inarrestabile decadenza della civiltà capitalistica, i poveri rumeni oppressi dal regime lo lessero naturalmente con tutt’altro spirito e altri occhi, scorgendovi invece una satira raffinata dell’incapacità del loro amatissimo Conducator.