Viaggio nella Commedia/3
Dante e Ulisse
Tramite il celebre incontro nell'Inferno, Dante spiega che l’impegno a conoscere non può essere illimitato, ma deve essere guidato sempre dal limite umano, dalla coscienza e dalla sua subordinazione a un valore superiore
Dante, esponendo nell’XI dell’Inferno l’ordinamento del basso Inferno, distingue la violenza dalla frode e individua anche diverse tipologie della stessa frode: la frode commessa nei confronti di chi non si fida (la frode variamente definita nell’ottavo cerchio) e quella commessa nei confronti di chi si fida, il tradimento punito nel nono cerchio. La violenza è peccato meno grave della frode e questa richiede pene maggiori, dice Dante, seguendo in questo i principi della filosofia antica (Cicerone) e la Summa di Tommaso d’Aquino, anche se Dante si allontana da una visione giuridica del peccato e preferisce valutazioni di tipo diverso (da moralista e poeta), governando con una coscienza d’artista una singolare strategia di linguaggi comico-realistici adeguati ai differenti registri frodolenti fino a culminare, in toni certamente più aulici, nel grande Canto XXVI.
In quel Canto, il personaggio di Ulisse riassume e condensa le linee portanti della cultura e del progetto poetico del poema dantesco. Un primo affascinante problema è rappresentato dal sapere se a Dante fossero noti i poemi omerici. Qui la critica si divide: per alcuni, Dante conosceva Ulisse attraverso Stazio, Virgilio e Ovidio, per altri, Dante potrebbe aver conosciuto il poema omerico attraverso una traduzione latina, ma, stando ai riscontri documentari, la tesi non risulta convincente, in quanto Livio Andronico, poeta latino, tradusse dal greco l’Odissea, ma a noi sono giunti solo pochi frammenti. La stessa guida di Dante, Virgilio, ripetutamente nella sua Eneide, definiva durus, saevus, dirus Ulisse, pronunciandone una condanna morale che si estendeva in generale ai Greci, ritenuti perfidi e infidi come Sinone e lo stesso suo maestro d’inganni, Ulisse, forse anche in ossequio alla politica culturale di Augusto.
Il serpeggiante antagonismo Greci-Troiani attraversa tutta l’Eneide, a partire dalla stessa distruzione di Troia e insegue un parallelismo tra il viaggio di Enea, guidato dalla volontà divina a una meta “provvidenziale” e l’errare sventurato e assai meno innocente di Ulisse, perseguitato dagli dèi ripetutamente oltraggiati. Ovidio e Stazio si muovono su una linea analoga rispetto a Virgilio: l’Achilleide ci presenta un Ulisse la cui arte sublime è la retorica usata per conseguire la partecipazione di Achille alla guerra contro Troia, sacrificandone gli affetti e la stessa vita, tacendo tali aspetti negativi e lavorando su temi cari alla gioventù del Pelide quali la gloria e il valore in battaglia. Anche Ovidio, nelle Metamorfosi, ci presenta un Ulisse fallax, abile, nella disputa per le armi di Achille, a usare la sua eloquenza nonostante la precisa accusa di Aiace. Il lettore medievale, che giudicava la figura di Ulisse dal supporto prezioso dei testi latini di Virgilio, Ovidio e Stazio, non poteva che ricevere l’impressione di un Ulisse hortator scelerum, fandi fictor. E tuttavia a tale giudizio non poteva che aggiungersi l’altra tradizione (derivata direttamente dalla letteratura greca) di un Ulisse sagax tratta, più che dai poemi omerici (che non si conoscono almeno fino al 1372, data in cui appare la prima traduzione latina dell’Odissea), dalla vasta tradizione delle Historiae Troianae. Aggiungiamo ancora un tassello, sulla scorta del grande dantista Giorgio Padoan.
La connotazione di sapiens nel Medioevo cristiano non indicava necessariamente un giudizio morale esclusivamente positivo, dal momento che si accettava (da Aristotele allo stesso Dante del Convivio) la distinzione tra vera sapienza e vana sapienza, tra la sapienza che si rivolgeva, in modo indiretto o diretto, a Dio, e la sapientia mundi (il sapere fine a se stesso, la curiositas o l’inanis scientia). E allora se la sapientia mundi può essere atto di superbia, essa può diventare anche strumento del male, via attraverso cui passa un non controllato desiderio di conoscenza. Tutta la cultura latina (da Virgilio, Stazio, Ovidio fino a Cicerone e ad Alano di Lilla) scindeva tra sapientia e calliditas e indicava sempre in Ulisse l’esempio della ricerca dell’utile con mezzi disonesti. Forse Dante sapeva dell’impresa terribile e misteriosa dei fratelli Vivaldi (1291) ricordata, un trentennio dopo la partenza, da Pietro d’Abano, ma per il poeta fiorentino l’Oceano era ancora la parte del globo negata ai viventi, non l’ignoto da scoprire, come accadrà più tardi: per Dante, tuttavia, come del resto per Petrarca e Boccaccio, Ulisse rimaneva un esploratore autore di un “folle” volo, preda di una brama di conoscenza smodata e non raffrenata dai limiti della ragione umana.
Anche Agostino, nel decimo libro delle Confessioni parla della libido experiendi noscendique e lo stesso Tommaso, ribadendo la condanna agostiniana, faceva notare la necessità di moderare con la ragione la ricerca della verità. Non me ne vogliano i lettori che si appassionano ai versi di Dante, sovrapponendo la loro sensibilità di moderni a quella di un poeta immerso tutto nella sua epoca, il Medioevo: so che le osservazioni prima avanzate rendono forse complessa la lettura del XXVI Canto, ma ne facilitano le coordinate contestuali di esegesi, liquidando le residue recensioni “romantiche” e post-romantiche di chi vede nell’Ulisse dantesco il prototipo dell’eroe moderno della conoscenza e della sfida all’ignoto, trascurandone le valenze “medievali” che Dante non manca di sottolineare, anzi, indica con estrema chiarezza, allorché differenzia il “folle” volo di Ulisse dal viaggio suo di pellegrino timoroso ed esposto al dubbio della ”follia”.
E non dimentichiamo neppure che Dante cita molte volte il “viaggio” come metafora di conoscenza ma anche come genere letterario molto diffuso nella letteratura medievale di viaggi e visioni dell’al di là. Dante non poteva conoscere la tradizione classica greca (quella dell’XI libro dell’Odissea), ma certo conosceva il suo “viaggio”, quello di Enea (il VI libro dell’Eneide) e il raptus di Paolo in Paradiso nella II Epistola ai Corinzi. Ed è soprattutto su Enea e Paolo, sui loro “viaggi” conoscitivi che Dante misura la sua debolezza e le ragioni che lo porteranno poi al pellegrinaggio oltremondano. Non trascuriamo anche la tradizione celtica dei viaggi per mare verso occidente, e, anche in ambito islamico, a partire da una allusione del Corano, si svilupperanno alcune versioni su un “viaggio notturno” di Maometto nell’aldilà con la guida dell’arcangelo Gabriele. Dante poteva forse conoscere una traduzione di tale viaggio in spagnolo, francese e latino del XIII secolo nota come Libro della Scala e anche la letteratura italiana del Duecento contava opere come quelle di Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva che possono avere contribuito alla costruzione della ipotesi di partenza del poema dantesco, insieme a prestigiosi (per l’epoca) modelli di poemi allegorico-didattici di autori come Alano di Lilla, Bernardo Silvestre, il francese autore del Roman de la Rose e il Tesoretto di Brunetto Latini. Dante li riassume tutti e li supera nella struttura imponente del viaggio di salvazione: basti qui aver indicato la duplicità del “viaggio” come esemplare di conoscenza e insieme genere letterario nobilmente attestato.
Senza proporre una lettura analitica del Canto, vorrei indicare, prima delle parole che Dante pone in bocca a Ulisse, l’importanza dei versi 18-24, estremamente significativi perché aiutano a definire il senso del successivo incontro con le anime dei frodolenti Ulisse e Diomede. Dante ripete, quasi alla lettera, un noto passo della Summa di Tommaso in cui si sottolinea che l’esercizio dell’ingegno deve sempre essere sottoposto al controllo della virtù, deve sempre essere condizionato dal bene da cui è stato creato. In altre parole, l’impegno a conoscere non può essere illimitato, ma deve essere guidato sempre dal limite umano, dalla coscienza e dalla sua inadeguatezza e limitatezza e dalla sua subordinazione a un valore superiore (la virtù). È questa una considerazione fondamentale che andrà tenuta presente nella storia di Ulisse e potrà aiutare a collocare la retorica eloquenza del re di Itaca nel modo più corrispondente al contesto discorsivo e assiologico in cui si svolge.
A questo punto, con la solenne similitudine tratta dalla Bibbia, il tono si eleva e ci si disegna davanti l’impressione visiva di fiamme che si muovono con estrema velocità sul fondo oscuro del fosso. al punto che nessuna di esse rivela il peccatore. Dante sporgendosi dal ponte di roccia e facendo leva su un masso, scopre lo spettacolo delle fiamme nella bolgia e Virgilio gli spiega che in ogni fiamma ci sono gli spiriti dei dannati. Dante rimane colpito da una fiamma bifida e Virgilio gli rivela che in quella fiamma vengono puniti i frodolenti Ulisse e Diomede ricordati per la più celebre delle loro imprese, vale a dire il cavallo di Troia che segnò la sconfitta dei Troiani e insieme, come ribadisce Virgilio, l’inizio dell’esilio di Enea destinato a fondare Roma e la stirpe romana sulla riva del Lazio per volere divino. Inoltre Virgilio non può fare a meno di citare anche, ricorrendo a Stazio e alla sua Eneide, il dolore provocato in Deidamia dalla partenza di Achille da Sciro per la guerra di Troia e il rapimento della statua di Pallade. Dante si rende conto che laborioso potrà essere il processo attraverso cui la voce dei due spiriti riuscirà a farsi strada attraverso la fiamma, ma ribadisce al Maestro il suo intenso desiderio di parlare con quegli spiriti. Virgilio suggerisce a Dante di lasciare a lui una simile iniziativa: la critica ha discusso di tale atteggiamento da parte di Virgilio e in parte lo riporta a quanto Virgilio dice a Dante (si tratta di eroi greci, appartenenti a un popolo di indole altera e superba), in parte indica in Virgilio una sorta di riverenza per un mondo di cultura e di eroi ben presenti nella letteratura latina.
Virgilio incita Ulisse non a raccontare ciò che di lui le fonti latine riferivano (Virgilio, Ovidio, Stazio, Seneca), questo Dante lo sapeva già, ma il momento decisivo in cui la sua vita scelse il peccato di sfidare Dio, anche se il re di Itaca non poteva conoscere il Dio cristiano, ma era mosso solo dal suo pensiero di eccedere la misura del conoscere, cadendo in quella hybris ( tracotanza) che anche gli dei olimpici punivano. Ulisse non si lascia sfuggire l’occasione per ribadire il suo protagonismo nell’eloquenza e prorompe in un discorso (agitando la parte superiore della fiamma) che parte dal soggiorno presso Circe e presto si atteggia a sfida diretta nei confronti dell’ignoto. Giunto ai limiti del mondo conosciuto, alle colonne d’Ercole, con una sola nave e con pochi e invecchiati compagni, Ulisse esorta con poche e ben costruite parole, i suoi “frati” a osare quello che mai prima altri uomini hanno tentato: conoscere l’emisfero opposto al nostro, gettarsi nell’oceano infinito per seguire le prerogative dell’uomo, virtù e conoscenza, senza voler porre alcun limite al proprio desiderio di sapere. E così, dopo aver spinto i compagni a rivolgere la prora a occidente, Ulisse inizia il “folle volo” (v. 125) che li condurrà prima a oltrepassare l’equatore e poi a scorgere un monte altissimo (la montagna del Purgatorio in cima alla quale era posto l’Eden, il paradiso terrestre) da cui nascerà un vento vorticoso che travolgerà col suo moto ondoso la nave di Ulisse, trascinandola a fondo, secondo la volontà divina. Non c’è bisogno di chiose o di commenti a quanto Ulisse ha appena detto: sono stati in realtà più i versi 18-24 a raccontarci il senso di quella sconfitta, la voracità di una scientia inanis non sorretta e non guidata dal bene e a esso indirizzata. Tutta la leggendaria eloquenza di Ulisse non può nascondere il significato forte e paradigmatico di quel volo, “folle” perché non guidato dalla virtù e dalla conoscenza del limite. Per molti versi, la storia di Ulisse (una sorta di canto fuori scena) ritornerà nella Commedia come rimando interno, rinvio a quel topos del viaggio oltremondano che, seguendo la “follia della sfida”, riuscirà a correre acque mai percorse da alcuno, solo perché sorretto dalla virtù divina che lo aiuterà a non essere né impius né fandi fictor, come era capitato all’eroe greco.