Daniela Matronola
A proposito di “Eccitare l'abisso"

Catturare le ombre

Siamo nella stessa condizione di Enea che nell'Ade non riuscì ad abbracciare l'ombra del padre Anchise: Roberto Masi offre uno spaccato della società (e dei suoi comportamenti) mettendo in relazione arte e filosofia

Eccitare l’abisso (Homo Scrivens, 150 pagine, 15 euro) – un titolo singolare per un libro unico scritto da Roberto Masi, narratore da Calenzano, che qui si cimenta con un formato letterario di nobile lignaggio, il saggio filosofico con forte impronta personale. È l’essai del “persiano” Montesquieu, ed è il personal essay di quel volpone di Samuel Johnson (da non confondere col vecchio Ben Jonson, autore di Sly Fox o Volpone). Ma ancor più innovativamente, il libro si rivela come una autobiografia filosofica o meditazione biografica.

Tutt’altro che avaro è il saggio filosofico in chiave filosofica artistica e narrativa del Masi. Il tratto in assoluto più generoso nella postura scelta dallo scrittore è essersi scelto come filtro, aver individuato se stesso come setaccio, con tutte le incrostazioni e i residui che ciò avrebbe comportato, di una indagine sul valore dell’esperienza nella conoscenza e nella percezione, nel sentire prima che il pensiero riagguanti il timone del controllo, e riordini e raggeli tutto in comode categorie razionali.

Il tentativo è di un più forte, di un più profondo sentire, senza che del fortunoso patrimonio sensibile si perda nemmeno una briciola. Un’impresa titanica e straziante. Un’opera di contenimento ardua, talmente drammatica e fisica da richiedere una mente agonistica, una deontologia umana estrema.

E qui fioriscono le figure. Due, prodigiose. Il ciclismo come emblema della curiosità dell’aggirarsi e del muoversi indaginosamente nel mondo solo apparentemente conosciuto, alla evidente ricerca di più stuzzicanti ambiti e oggetti. E poi l’immersione, l’apnea come esplorazione col cuore in gola di un ignoto che non concede punti di riferimento, che genera colori alla coscienza in cui s’annega il pensier mio, e naufragar m’è temerario eppure irrinunciabile in un simile mare che è nero oceano.

È significativo il fatto che in esergo Roberto Masi ricorra alle parole di Simone Weil quando dice che penetrare nel regno della verità non è riservato solo al genio ma si può farne straordinaria esperienza anche da individui ordinari se si fa un perpetuo sforzo d’attenzione per attingerla. Sempre in esergo appare la chiave forse del modo in cui tutto ciò può, deve, e riesce ad-, accadere, cioè nel miracoloso lampeggiare del Reale secondo le parole dell’amico filosofo/poeta/bibliofilo Gabriele Lastrucci.

L’andamento di questo saggio in termini di scrittura è tutto punteggiato, come in un arengo che ha le sponde e i corrugamenti di un flipper, da due ordini apparentemente opposti di manifestazioni umane: da una parte i filosofi moderni da Pascal a Schopenhauer a Nietzsche, e il superamento in costanza di sforzo di alcune loro formulazioni disposte lungo il tragitto come altrettante formule di appoggio alla costante osservazione e rivalutazione dell’esperienza e della meditazione nel pensiero; dall’altra le opere di alcuni artisti contemporanei, prima fra tutte l’Achrome di Piero Manzoni, che, in questa sorta di diario filosofico, Roberto Masi prende in considerazione come vero punto di partenza di questa sua intera ricerca.

Tutto è partito dall’amore. Dalla percezione netta che il mondo è permeato d’amore e noi stentiamo a coglierlo in concreto benché lo annusiamo nell’aria, lo “sentiamo” attorno a noi, ma agguantarlo poi è tutt’altra faccenda. Viverlo, si vorrebbe, più banalmente. Ma l’impresa è tutt’altro che banale.

L’idea è che un ignoto ci rimanda segnali e noi proviamo a stringerli dopo averli confusamente attinti ma ci resta in mano un pugno di mosche – restiamo a mani vuote come Enea quando nell’Ade tentò di abbracciare Anchise e restò spiazzato dall’ologramma. Ecco, come si dà corporeità all’ologramma senza togliergli un grammo della sua natura e della sua pur annusata consistenza? Ci coglie un senso di inanità che però rischia di mettersi comodo tra malinconia e nostalgia. Se accade questo siamo già fregati. La lotta che ognuno di noi, every(wo)man o pilgrim, può, se vuole, intraprendere, e dopotutto si trova a dover attraversare nell’atto semplice di vivere un po’ meno offuscatamente, con un minimo di grado di veglia in più, consiste in un cammino. Dunque ha un valore e soprattutto un andamento dinamico, che segue mille traiettorie, e via via aggancia segni e oggetti che, mentre rimpolpano il patrimonio della percezione e della conoscenza in quella forma complementare che è la figurazione, ne inabissano scartano e sostituiscono altri. Le opere considerate da Roberto Masi in questo suo tortuoso percorso sono, oltre all’Achrome di Piero Manzoni, il Cretto Nero G4 di Burri, la Curva di Peano (opera finita e disegno rappresentativo) di Bruno Munari, oppure Study for Homage to the Square di Josef Albers – gli appare rivelatorio anche un dipinto classico come l’Allegoria del trionfo di Venere del Bronzino dove piccoli segni, molto precisi, nella figurazione come nel loro dialogo con gli altri elementi del quadro, bussano alla porta di una percezione più attenta nello spettatore e riescono a suscitare l’acquisizione del dato in esso mimetizzato: l’inganno; e, già subito in apertura di libro, l’impareggiabile Primavera del Botticelli: lì saetta la figura emblematica di Mercurio e nella percezione catalizzata dalla rappresentazione di quella stagione di passaggio, trasformativa, che è la Primavera, “percepisco la potenza della transizione di tutte le cose”, della “fine e inizio di tutto”.

L’ignoto è l’oceano della conoscenza in cui siamo nostro malgrado immersi e da cui tendiamo anche a difenderci – solo così si spiega (questo è un pensiero mio) la reazione violenta suscitata spesso dalle opere contemporanee che, come direbbe Picasso, non inventano il caos, non disordinano la realtà ma mostrano il vero volto di ciò che percepiamo ed in cui siamo immersi, cioè caos e disordine.

Le opere – più che il pensiero articolato e “figurato” di filosofi matematici e poeti, e prima o a dispetto degli stessi artisti, dei loro stessi autori – sanno alludere a questi dati di fondo del mondo che abitiamo. Che non è solo fuori di noi e intorno a noi ma è anche dentro di noi, perché da noi parte lo strumentario che ci spinge (mentre vorrebbe sottrarci) a starci dentro, a nuotarci in mezzo e a percepirlo e coglierlo. Roberto Masi, che ha praticato l’apnea, non solo sceglie questa pratica come “gesto” riassuntivo e sostitutivo (per sineddoche e metonimia) del tragitto conoscitivo-sentimentale, ma dà all’ignoto di cui trattasi la “contro-figura” dell’oceano. Lì per forza di cose siamo tutti in media ciechi ma poiché qualcuno ci abita (la nostra coscienza, il nostro sé) ci muoviamo, ci dice Masi, tra trasformazione e contrazione, in un perenne moto elaborativo in direzione positiva o negativa, come ben illustra un’altra opera di Munari tirata dentro il diario meditativo del libro, Negativo Positivo.

Avviandomi verso la conclusione della recensione di questo libro, splendido e impegnativo, anche per rivelare un piccolo tesoro che esso custodisce e svela a sua volta solo a fine percorso, registro che due sono le considerazioni a cui l’opera conduce nel mezzo del suo cammino. La felicità non è uno stato immobile e auto-tutelante, ma è approdo del pensiero o meglio è accettazione, è RESA. E poi, IMMERGERSI, non è solo discendere, calarsi nell’ignoto, nell’oceano del valore dell’esistere, ma è anche accettazione del proprio essere briciola dentro l’abisso – ed è questa esperienza il vero atto di RESA. Gli umani sullo schermo dell’esistenza sono come gli elettroni sullo schermo del televisore – la vita è granulare, pulviscolare. Così l’unica scelta possibile è il dubbio come regola, l’incertezza o indeterminazione come certezza, come consistenza certa dell’esistere, che conduce dritto dritto alla keatsiana negative capability, mi pare di poter dire, e rianima l’immagine di noi Sisifi felici.

Capiamo meglio che l’oceano, figura del nostro ignoto-vita, è mondo e condizione umana, e i colori che Piero Manzoni e Alberto Burri ci suggeriscono, il grigio e il bianco/nero, dunque sia bianco che nero, sono inizio e divenire di un processo immersivo che ha nell’oceano la condizione necessaria e nell’apnea l’esperienza insostituibile.

Allora “eccitare l’abisso” vuol dire sì sfruculiare l’ignoto, interrogarlo anzi spavaldamente smuoverlo (Stirring the Abyss suggerisco, per una eventuale versione del testo per l’editoria dei Paesi anglofoni), smuoverne e agitarne le acque, ma è anche trovare il modo, attraverso un percorso che chi legge fa col libro, di acclarare il vero prodigio che qui ci viene donato: le opere sono figurazioni del pensiero, il pensiero è tracciato delle opere, in una scorta di immaginazione e speculazione (faretra e frecce) da portare con sé nel viaggio dell’io senziente che discorre come pensiero sensibile, a volte sensitivo, e si anima in figure. E il viaggio non è solo, come ciclisticamente cogliamo a inizio e fine del libro, orizzontale e multidirezionale, ma è soprattutto immersivo, in profondità, in verticale, giù fino in fondo, e poi su risalendo lungo il cordino di sicurezza che aiuti a riemergere in superficie, più ricchi di senso, meno orfani di significati. Desumiamo che la superficie che tanto ci mette in difficoltà e ci spaventa in realtà è una passeggiata. Questo libro è una sorta di Pilgrim’s Progress contemporaneo che investe il senso – se c’è n’è uno o più d’uno – del nostro destino di umani calpestatori maldestri e poco innocenti del globo terracqueo, di viventi spesso abusivi e arbitrari. È dunque un‘opera che rimette in comunicazione nella parola e nelle sue potenzialità tutte le scienze e le arti, in definitiva è un’opera teologica nel senso più laico che si può.


Accanto al titolo, Bruno Munari, “Negativo positivo” 1951.

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