A proposito di "Un'infezione latente"
L’investigatore intellettuale
Ettore Catalano con la sua nuova indagine del commissario Donato Tanzarella conferma le sue doti di giallista che mescola l'inquietudine stilistica di Gadda allo scavo psicologico di Simenon
Il terzo noir di Ettore Catalano, professore onorario dell’Università del Salento, cementa e consacra le indagini dell’ostunese Donato Tanzarella, il dotto commissario capace di riaprire un caso che sembrava chiuso e citare con estrema naturalezza le poesie di Borges. Un’infezione latente (Progedit, pp. 112, € 15), che segue in un breve fazzoletto di tempo Rosso Adriatico. Il delitto della lamia (2018) e Un mare di follia (2019), si compone di una cornice narrativa legata ai temi cocenti del delitto a sfondo razziale e induce così il lettore a interrogarsi sulle odierne tensioni sociali ripercorrendone i nessi psicologici. Dopo le tetre azioni di trafficanti e le emergenze ambientali, Tanzarella – narratore omodiegetico, dunque attore in prima persona dentro una realtà romanzesca che si presenta filtrata dal suo sguardo – è costretto a confrontarsi con un incendio nella villa di Lorenzo Ciraci, imprenditore agricolo, e un efferato doppio omicidio durante la notte di Capodanno.
Tanzarella, sempre molto lucido e al contempo trasognato, ha qualcosa di Ciccio Ingravallo e di Jules Maigret messi insieme: quell’arguzia, quel torpore, quella spensieratezza un po’ pensierosa, unita a un fiuto infallibile e a ottime letture (si spazia da Neruda a Canetti, da Dante a Melville, senza dimenticare Stendhal), rendono il protagonista un personaggio soffuso e ondivago, cerebralmente dotato – spesso impegnato in energici quesiti di critica letteraria – e anche colpito da perdonabili debolezze, che rendono assai vivide le tonalità dei suoi umori. Il flusso del racconto che scorreper bocca del commissario è conciso, nudo e Catalano è bravissimo a non infiorettare la prosa senza correre il rischio di impoverirla, teso com’è soltanto a rappresentare con chiarezza cristallina le congetture e le ricostruzioni, gli incontri e i rimuginii, intervallati dai folti riecheggiamenti intertestuali, come in questo passaggio significativo: «Il mio professore di liceo, a Torino, appassionato lettore di Pavese, ci aveva affascinati leggendoci passi di Moby Dick nella traduzione che ne aveva fatta lo stesso Pavese ed io avevo allora capito che quel gran libro, da me letto in versione ridotta come grande avventura, era un poema sacro che celebrava il mistero della natura e l’ambiguità dell’essere. Eppure, al di là di quanto non riuscivo a comprendere del tutto, visto che ero pur sempre un poliziotto e non un accademico, avvertivo la mia verità di lettore, quel prepotente fascino che mi faceva pensare all’Oceano Pacifico misterioso e divino, cuore della terra che batte nelle sue maree, come scrive Melville, “il gran sudario d’acqua”, che si chiude sul Pequod».
L’abbandonarsi di Tanzarella ai ricordi di adolescenza e di studio è la chiave grazie alla quale egli riesce poi ad aprire, a risolvere i casi più spinosi: ed è proprio questo il punto di congiunzione con Maigret, il pensiero en arrière, all’indietro, finanche il replay di un’esistenza – mediato appunto dal tramestio dei libri – fanno scattare la serratura del già vissuto e accendono la fiaccola degli intuiti: improvvisamente, come toccato dalla grazia il commissario comincia a captare e poi a comprendere del tutto. (Si ricordino le pagine bellissime di Leonardo Sciascia – da poco, per altro, si è festeggiato il centenario della sua nascita – in cui lo scrittore siciliano associava l’intuizione di Sherlock Holmes all’opportunità dell’illuminazione divina.) E tale esperienza lo pervade nell’intimo («non avevo capito che un’indagine deve guardare, soprattutto, in modo impersonale, alle emozioni che i fatti accaduti ti fanno nascere dentro, senza lasciarsi catturare dalla ripugnanza o dall’orrore di quanto hai visto o creduto di vedere»), fino a provare una scossa di cambiamento interiore che è sempre una sorpresa, citando Manzoni lettore di Jansen e Pascal, in «quel guazzabuglio del cuore umano».